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ATTUALITA'

A4 waist challenge

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– di Camilla Podini

 

Un foglio da disegno A4 e una macchina fotografica. Banali ed innocui oggetti che si stanno rivelando le basi di un pericoloso vortice, destinato ad attirare altre ingenui vittime: A4 WAIST CHALLENGE. Arriva dal Giappone questa nuova pericolosa moda, e consiste nel fotografarsi posizionando sulla vita uno dei tanti fogli utilizzati per disegnare, che in questa occasione ha un ruolo diverso. Lo scopo è dimostrare di avere un punto vita più sottile della larghezza del foglio stesso, di conseguenza quest’ultima “scompare” dietro il pezzo di carta, che la copre completamente. E poco importa fotografarsi di schiena o davanti, con un foglio scritto o bianco, l’essenziale è mostrare a tutti la propria magrezza. Quando pensavamo di averle viste proprio tutte, dai selfie al food porn, ecco che si aggiunge una nuova moda, questa volta più insidiosa delle precedenti. Facile criticare, molto complicato capire. È una sfida con gli altri o contro se stessi? Orgoglio, sfacciataggine e narcisismo, o insicurezza, complesso e fissazione? Forse l’insicurezza ci spinge ad affrontare i nostri complessi provocando reazioni inaspettate che sfociano in una fissazione, in un mito su cui iniziamo a concentrare le nostre attenzioni. La mania più diffusa è proprio quella del fisico, che deve sottostare a rigorose regole e a forme striminzite: se una simile aspirazione può essere utile ad incentivare sempre più giovani a praticare sport e attività fisica, allo stesso tempo può rappresentare il primo passo verso preoccupanti patologie. Anoressia e bulimia, che attaccano soprattutto giovani donne che arrivano a rifiutare il cibo o ad auto indursi il vomito con lo scopo di non assumere le calorie ingerite, sono i disturbi alimentari più celebri, ma non gli unici. La vigoressia è l’ossessione per la forma fisica perfetta, da ottenere attraverso prolungati allenamenti estenuanti ed intensivi, o con l’eccessivo controllo dell’alimentazione. In questo caso le vittime più colpite sono gli uomini, che arrivano anche all’assunzione di sostanze ambigue e sconosciute per ottenere muscoli definiti e sodi. Una sana abitudine come lo sport può tramutarsi in malattie che minano la salute fisica e psichica, quando una semplice passione si trasforma in mito e culto d’immagine. Talvolta l’eccessiva cura del nostro corpo è un rifugio e una strategia per abbattere debolezze e mancanza di autostima, talvolta è il giudizio dei nostri coetanei a causarci disagi e timori o, più spesso, è l’influenza dei media a farci sentire inadeguati. La pressione che televisione, giornali e social network esercitano sulla vita e sul pensiero di noi adolescenti ha un peso sempre maggiore: i modelli e le forme che ci propongono, rigorosamente perfetti ed ideali, diventano automaticamente delle regole, che tutti noi siamo portati a rispettare per mantenere credibilità e valore. Gli ideali che caratterizzavano e diversificavano le generazioni precedenti si sono livellati, creando un mito come quello della forma fisica perfetta che accomuna tutti i giovani e ci condiziona al punto da escogitare insidiose mode come l’A4 Waist Challenge. Tutti siamo infastiditi da simili comportamenti, ma tutti ne siamo influenzati. Tutti vorremmo sentirci amati e a nostro agio senza ricorrere a queste metodologie, ma tutti continuiamo a giudicare gli altri. E “tutti” può rappresentare il rimedio: siamo abituati ad affrontare da soli situazioni come queste, dimenticando che i nostri coetanei stanno vivendo i medesimi dubbi ed insicurezze. Sfogarsi, confrontarsi ed aiutarsi tra amici è la giusta via da intraprendere per evitare di cadere in un vortice. La società attuale ha radicato nella mente dei giovani il mito che magrezza sia sinonimo di bellezza, portandoci ad usare strategie sempre più pericolose per esibirla, e dimenticando che sono qualità come intelligenza, creatività e coraggio a fare davvero la differenza.

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POLITICA E ALIMENTAZIONE/La guerra agli hamburger di soia

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I prodotti a base vegetale stanno riempiendo sempre di più gli scaffali dei supermercati italiani.

Oggi è possibile sostituire i tradizionali prodotti a base di carne con hamburger di soia, salsicce di seitan o polpette vegetali. Il nome “hamburger di soia”, per esempio, può risultare paradossale, ma non in un mondo dove il futuro della carne è vegetale.

9 italiani su 10 sono favorevoli all’utilizzo di termini come questo, che rimandano inevitabilmente al mondo della carne con lo scopo di rendere il consumatore più consapevole del prodotto e promuovono scelte alimentari più salutari e sostenibili. È indubbio che si tratti di marketing, ma è davvero un tema su cui dover discutere?

Per alcuni deputati della Camera, sì.

Una proposta di legge che vuole vietare l’uso di nomi riconducibili alla carne per i prodotti vegetali è stata infatti presentata nella Commissione Agricoltura della Camera. L’obiettivo di questa legge è quello di difendere gli allevamenti e la produzione di carne italiana, che sarebbero svantaggiati dalla concorrenza di scelte alternative. Prodotti come la “bresaola di seitan” o la “bistecca di tofu” potrebbero, secondo i promotori della legge, indurre chi compra a pensare erroneamente che questi alimenti siano esattamente identici alla carne a livello nutrizionale.

Secondo l’organizzazione per i diritti animali “Essere Animali”, l’argomento della legge è fuorviante, perché ci sono differenze nutrizionali anche tra prodotti a base di carni diverse con lo stesso nome. I prodotti che usano questo tipo di termini, inoltre, avvicinano le persone a un’alimentazione più veg, una scelta migliore non solo per la salute ma anche per l’ambiente.

La proposta di legge, infatti, non considera i vantaggi a livello di sostenibilità ambientale che offre l’alimentazione vegetale: un report della Commissione Europea ha dimostrato che il settore zootecnico (una parte del settore primario che consiste nell’allevamento, nell’addomesticamento e nello sfruttamento di animali a fini produttivi) è responsabile per l’81- 86% delle emissioni totali di gas serra nell’agricoltura.

Per questi motivi Essere Animali ha lanciato una petizione per chiedere al Governo di impegnarsi a bloccare la proposta.

 

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MALASANITÀ/Il dramma del neonato morto al Pertini

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L’otto gennaio di quest’anno, al ospedale Pertini di Roma un neonato è morto soffocato quando la madre che lo stava allattando si addormenta.

Successivamente la procura ha aperto un fascicolo: “omicidio colposo”.

Intanto però la notizia si diffonde, e il padre del neonato racconta al Messaggero di come la donna fosse sfinita e priva di energie dopo ben 17 ore di travaglio.

La moglie aveva più volte chiesto ai responsabili del reparto di portare il neonato al nido del ospedale per poter riposare, anche solo per qualche ora.

Ma il permesso le era sempre stato negato.

Nei giorni successivi il fatto ha scatenato un accesso dibattito riguardante le procedure post-parto degli ospedali.

Infatti, negli ospedali solitamente è previsto il cosiddetto “rooming-in”, ovvero il neonato subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa stanza della madre anziché in una camera in comune con altri neonati.

A questa pratica però, dovrebbe essere sempre proposta un alternativa cioè la gestione dei neonati da parte del Asilo del ospedale, fino al termine della permanenza.

Questa seconda opportunità non viene sempre tenuta in considerazione, e centinaia di donne nei giorni scorsi hanno raccontato la loro esperienza denunciando che la possibilità di usufruire del nido ospedaliero sia stata loro  negata.

Le domande che ci si pongono in questi casi sono molteplici: Cosa sarebbe accaduto se questa donna avesse potuto riposare per qualche ora? O anche solo sé qualcuno avesse avuto cura si sorvegliarla e assisterla? La pratica di rooming-in vale per qualsiasi situazione? È  davvero la scelta più adeguata?

Il drammatico evento che ha portato  il decesso del neonato di Roma dovrebbe stimolare le coscienze e una azione diretta delle istituzioni per tutelare maggiormente la salute delle donne dopo il parto.

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DALL'EUROPA

MODA/Un italiano al timone di Luis Vuitton

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Pietro Beccari è il nuovo amministratore delegato e presidente di Louis Vuitton. Un italiano, dunque, guiderà la marca francese di lusso più nota al mondo fondata da Bernard Arnault. Beccari succederà a Michael Burke. Mentre alla guida di Dior andrà Delphine Arnault, figlia primogenita dell’imprenditore attualmente “uomo più ricco del mondo” secondo Forbes. Un cambio ai vertici che era nell’aria e attendeva solo la conferma ufficiale. Questo è forse il primo dei molti i cambiamenti che attendono il mondo della moda per questo 2023, nel management come nelle direzioni creative.

Pietro Beccari, parmense classe 1967, ha iniziato il suo percorso professionale nel settore marketing di Benckiser (Italia) e Parmalat (Usa), per poi passare alla direzione generale di Henkel in Germania, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della divisione Haircare.

Nel 2006 è entrato in LVMH in qualità di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione per Louis Vuitton, prima di diventare Presidente e ceo di Fendi nel 2012. Da febbraio 2018 è presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del comitato esecutivo di LVMH.

“Pietro Beccari”, ha commentato Bernard Arnault, fondatore e CEO di LVMH: “ha svolto un lavoro eccezionale in Christian Dior negli ultimi cinque anni. La sua leadership ha accelerato il fascino e il successo di questa iconica Maison. I valori di eleganza di Monsieur Dior e il suo spirito innovativo hanno ricevuto una nuova intensità, supportata da designer di grande talento. La reinvenzione della storica boutique al 30 di Montaigne è emblematica di questo slancio. Sono certo che Pietro condurrà Louis Vuitton a un nuovo livello di successo e di desiderabilità”.

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