Cari amici di Sharing, oggi è qui con noi il professore Filippo Bottillo, docente di religione presso la succursale di Recco. Insieme a lui approfondiremo un tema universalmente presente nella storia dell’umanità: “L’uomo e il mito”. Le origini del mito risalgono parallelamente a quelle della scrittura, la cui invenzione ha segnato un cambiamento epocale, lo spartiacque tra la preistoria e la storia. Questa innovazione è stata una sorgente di informazioni e cultura senza precedenti, una tecnica ancora oggi efficace per la comunicazione umana e alla base della società contemporanea. Uno strumento particolarmente efficace, all’interno della scrittura, in grado di far emergere in modo definito e completo l’interiorità del soggetto, la sua inquietudine, la sua psiche, è stato sicuramente il mito. Professor Bottillo: che cos’è un mito?
Raminelli, mi fai una domanda enorme. Partirei da una definizione, tanto per definire il campo in cui muoverci. L’uomo, infatti, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, non possono mai essere identificati esaustivamente all’interno di uno schema: ce lo insegna l’esperienza. Comunque sia, esistono diverse definizioni di mito. Esso può essere inteso come un complesso di narrazioni aventi come oggetto dèi ed eroi leggendari; oppure come una rappresentazione allegorica, filosofica o politica volta a rappresentare un’idea; ancora, come l’idealizzazione di un evento, di un personaggio o di una situazione. Ogni era e cultura ha dei miti di riferimento: qual è l’origine?
Ognuno di noi ha bisogno di miti: che siano inventati o reali, all’interno di una dinamica relazionale volta alla crescita dell’essere umano, il mito rappresenta sempre un confronto verso il quale tendere. L’uomo ha un’urgenza dentro di sé. Il mito corrisponde ad una risposta al bisogno esistenziale che ci contraddistingue.
Secondo lei, quali sono i miti di oggi?
Per accorgerci dei miti che caratterizzano la nostra società basta guardare la televisione, il mezzo di comunicazione di massa attraverso il quale ci vengono trasmesse idee e contenuti con cui confrontarci. I miti variano anche in base alle persone prese in esame, alla cultura di appartenenza, al background e alla storia familiare che le caratterizza. A livello più generale, la nostra società è impostata su uno stampo capitalista improntato al libero mercato; questo determina una serie di miti molto diffusi di tipo economico, quali l’accumulo, la ricerca della ricchezza, il successo e il potere. Ma questo, come già accennavamo prima, non è altro che la conseguenza di un bisogno più profondo: la ricerca di felicità. All’interno di ogni persona abbiamo un desiderio, che è quello di essere felici, stare bene, essere sereni. Questo slancio – estremamente positivo – se interpretato male, può corrispondere ad una prevaricazione, ad un tentativo di accumulo di potere e fama per evitare di essere in pericolo. C’è un bisogno di sicurezza esistenziale alla base di tutto. Noi tentiamo sempre di riempire un vuoto che sentiamo al nostro interno.
Dunque il bisogno che ci spinge a creare miti nasce da una mancanza che ci spinge verso la definizione di un ideale. Secondo lei, esiste un ideale in grado di colmare fino in fondo il cuore dell’uomo? O siamo destinati a creare miti all’infinito?
Un buon elemento di confronto è il rapporto col trascendente. L’esperienza ci insegna che quando ci confrontiamo col metafisico abbiamo una modificazione del nostro comportamento, positiva o negativa a seconda di come uno si relaziona. Cercare un mito che valga per tutti potrebbe essere il riconoscimento di Dio, declinato in forme diverse secondo le varie religioni. Dire che Dio è un mito è comunque sbagliato, perché Dio non è un mito, bensì una relazione: il trascendente è parte dell’essere umano che lo definisce in quanto tale. Se eliminassimo il trascendente dall’essere umano cancelleremmo una parte di noi stessi. Cercare un mito che soddisfi la propria domanda vuol dire che non si è ancora preso coscienza di ciò che si è e si ha ancora bisogno di un confronto esterno che indichi al soggetto il proprio valore. Ma se io parto dalla prospettiva che esiste una relazione – dal punto di vista cristiano, trinitaria – che produce un effetto sull’essere umano, noi non abbiamo più un mito ma un’esperienza, che estingue a questo punto il bisogno di cercare miti. Il mito è anche segno di impedimento, ricerca di conferma di qualcosa che non si ha. Quando si incontra Dio la ricerca diventa relazione. Questo determina uno scatto di crescita e maturità significativo.
Non dobbiamo condannare i miti: servono per crescere, ma prima o poi vanno abbandonati. Essi sono dei punti di riferimento, come i genitori: il bambino ad un certo punto deve demolirli per affermare la propria identità. Questo vale per tutti i miti: essi sono tappe necessarie lungo la ricerca di se stessi. Quindi non c’è mai l’identificazione totale con un mito…
Non ci dovrebbe mai essere. Nel momento in cui questa avviene, siamo alla presenza di una mancanza di maturazione. L’assolutizzazione di un mito è sempre un abbaglio, e ha delle ripercussioni forti nella vita delle persone. Questo può accadere nei confronti di un personaggio o di un’idea, come è successo nel 1900. Anche l’ideologia cristiana può essere vissuta così. L’assolutizzazione di un mito è sempre dannosa perché inverte il processo di crescita nella società, causandone una regressione. Quando la norma diventa assoluta e non tiene più conto della variante, che è la persona, allora diventa violenta e distruttiva. Un’ideologia sana, invece, considera la persona ed è disposta ad una modificazione in corso d’opera. Riassumendo: i miti sono necessari per un processo di crescita del soggetto, ma nel momento stesso in cui diventano assoluti, si rivelano devastanti. La crescita definitiva, dunque, è l’abbandono dei miti a favore della riscoperta di sé…
Si, ma all’interno di una relazione col trascendente. La relazione con l’assoluto – dal punto di vista cristiano: Dio – è ciò che ci permette di avere dei punti di riferimento, ma nello stesso tempo di non assolutizzare se stessi. L’autoreferenzialità porta sempre ad un’autodistruzione perché noi non bastiamo a noi stessi.
Prof, grazie mille per essere stato con noi.
Grazie a voi.
I prodotti a base vegetale stanno riempiendo sempre di più gli scaffali dei supermercati italiani.
Oggi è possibile sostituire i tradizionali prodotti a base di carne con hamburger di soia, salsicce di seitan o polpette vegetali. Il nome “hamburger di soia”, per esempio, può risultare paradossale, ma non in un mondo dove il futuro della carne è vegetale.
9 italiani su 10 sono favorevoli all’utilizzo di termini come questo, che rimandano inevitabilmente al mondo della carne con lo scopo di rendere il consumatore più consapevole del prodotto e promuovono scelte alimentari più salutari e sostenibili. È indubbio che si tratti di marketing, ma è davvero un tema su cui dover discutere?
Per alcuni deputati della Camera, sì.
Una proposta di legge che vuole vietare l’uso di nomi riconducibili alla carne per i prodotti vegetali è stata infatti presentata nella Commissione Agricoltura della Camera. L’obiettivo di questa legge è quello di difendere gli allevamenti e la produzione di carne italiana, che sarebbero svantaggiati dalla concorrenza di scelte alternative. Prodotti come la “bresaola di seitan” o la “bistecca di tofu” potrebbero, secondo i promotori della legge, indurre chi compra a pensare erroneamente che questi alimenti siano esattamente identici alla carne a livello nutrizionale.
Secondo l’organizzazione per i diritti animali “Essere Animali”, l’argomento della legge è fuorviante, perché ci sono differenze nutrizionali anche tra prodotti a base di carni diverse con lo stesso nome. I prodotti che usano questo tipo di termini, inoltre, avvicinano le persone a un’alimentazione più veg, una scelta migliore non solo per la salute ma anche per l’ambiente.
La proposta di legge, infatti, non considera i vantaggi a livello di sostenibilità ambientale che offre l’alimentazione vegetale: un report della Commissione Europea ha dimostrato che il settore zootecnico (una parte del settore primario che consiste nell’allevamento, nell’addomesticamento e nello sfruttamento di animali a fini produttivi) è responsabile per l’81- 86% delle emissioni totali di gas serra nell’agricoltura.
Per questi motivi Essere Animali ha lanciato una petizione per chiedere al Governo di impegnarsi a bloccare la proposta.
L’otto gennaio di quest’anno, al ospedale Pertini di Roma un neonato è morto soffocato quando la madre che lo stava allattando si addormenta.
Successivamente la procura ha aperto un fascicolo: “omicidio colposo”.
Intanto però la notizia si diffonde, e il padre del neonato racconta al Messaggero di come la donna fosse sfinita e priva di energie dopo ben 17 ore di travaglio.
La moglie aveva più volte chiesto ai responsabili del reparto di portare il neonato al nido del ospedale per poter riposare, anche solo per qualche ora.
Ma il permesso le era sempre stato negato.
Nei giorni successivi il fatto ha scatenato un accesso dibattito riguardante le procedure post-parto degli ospedali.
Infatti, negli ospedali solitamente è previsto il cosiddetto “rooming-in”, ovvero il neonato subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa stanza della madre anziché in una camera in comune con altri neonati.
A questa pratica però, dovrebbe essere sempre proposta un alternativa cioè la gestione dei neonati da parte del Asilo del ospedale, fino al termine della permanenza.
Questa seconda opportunità non viene sempre tenuta in considerazione, e centinaia di donne nei giorni scorsi hanno raccontato la loro esperienza denunciando che la possibilità di usufruire del nido ospedaliero sia stata loronegata.
Le domande che ci si pongono in questi casi sono molteplici: Cosa sarebbe accaduto se questa donna avesse potuto riposare per qualche ora? O anche solo sé qualcuno avesse avuto cura si sorvegliarla e assisterla? La pratica di rooming-in vale per qualsiasi situazione? Èdavvero la scelta più adeguata?
Il drammatico evento che ha portatoil decesso del neonato di Roma dovrebbe stimolare le coscienze e una azione diretta delle istituzioni per tutelare maggiormente la salute delle donne dopo il parto.
Pietro Beccari è il nuovo amministratore delegato e presidente di Louis Vuitton. Un italiano, dunque, guiderà la marca francese di lusso più nota al mondo fondata da Bernard Arnault. Beccari succederà a Michael Burke. Mentre alla guida di Dior andrà Delphine Arnault, figlia primogenita dell’imprenditore attualmente “uomo più ricco del mondo” secondo Forbes. Un cambio ai vertici che era nell’aria e attendeva solo la conferma ufficiale. Questo è forse il primo dei molti i cambiamenti che attendono il mondo della moda per questo 2023, nel management come nelle direzioni creative.
Pietro Beccari, parmense classe 1967, ha iniziato il suo percorso professionale nel settore marketing di Benckiser (Italia) e Parmalat (Usa), per poi passare alla direzione generale di Henkel in Germania, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della divisione Haircare.
Nel 2006 è entrato in LVMH in qualità di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione per Louis Vuitton, prima di diventare Presidente e ceo di Fendi nel 2012. Da febbraio 2018 è presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del comitato esecutivo di LVMH.
“Pietro Beccari”, ha commentato Bernard Arnault, fondatore e CEO di LVMH: “ha svolto un lavoro eccezionale in Christian Dior negli ultimi cinque anni. La sua leadership ha accelerato il fascino e il successo di questa iconica Maison. I valori di eleganza di Monsieur Dior e il suo spirito innovativo hanno ricevuto una nuova intensità, supportata da designer di grande talento. La reinvenzione della storica boutique al 30 di Montaigne è emblematica di questo slancio. Sono certo che Pietro condurrà Louis Vuitton a un nuovo livello di successo e di desiderabilità”.