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L'EDITORIALE

È sempre giusto dire quello che si pensa?

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di Federico Pichetto

– È forse una delle più grandi conquiste della democrazia del nostro tempo: la libertà di opinione. Gli uomini e le donne non possono più essere puniti per il semplice fatto di esprimere i loro giudizi, le loro idee e i loro intenti anche fossero concetti o parole in palese contrasto con quelli sostenuti da coloro che occupano il potere in quel momento: l’omologazione lascia quindi il posto al pluralismo, alla possibilità che le cose maturino e cambino con il contributo di tutti.

Espressione massima di questa libertà è certamente la Rete Internet e – al proprio interno – il mondo dei social. Ciascuno su queste piattaforme apre un proprio account e comincia a dire e a raccontare qualunque cosa che non leda i limiti previsti dai Codici Civile e Penale in materia di libertà di espressione in modo tale che chiunque, con le proprie opinioni, possa raggiungere potenzialmente tutti e costruire consenso, influenzando gli altri.

La storia sembra dunque una di quelle destinate al lieto fine, ma non è proprio così: si moltiplicano in rete le cosiddette “parole in libertà”, opinioni espresse nei limiti delle leggi vigenti, ma che – di fatto – urtano la sensibilità e, a volte, l’onorabilità di altre persone senza che né lo Stato né i Social Network possano fare al momento davvero qualcosa. Abbiamo forse attrezzato uno degli spazi più liberi della storia umana e, come spesso accade alla nostra specie, lo stiamo distruggendo violentemente, senza comprendere quale bene rischiamo di compromettere.

 

 

Per questi motivi forse è bene puntualizzare cinque cosette, magari banali, ma fortemente essenziali per il perpetrarsi della convivenza civile e per non assistere inermi alla decadenza di quel diritto di espressione che l’umanità si è guadagnata a caro prezzo:

1. Dire quello che si pensa è un diritto, non un dovere. Per cui moltiplicare gli interventi su tutto e su tutti diminuisce la nostra credibilità e ci rende terribilmente fastidiosi. Contenere se stessi, darsi dei confini, è una pratica essenziale per l’educazione della nostra libertà. Per questo è sempre giusto domandarci prima di “dire la nostra”: “ma è proprio il caso che io in questa situazione intervenga?” agendo poi di conseguenza;
2. Evitare di “dire quello che si dice” ossia verificare bene la verità delle cose che diciamo: “chi ce le ha dette?”, “da dove sono state attinte le informazioni?”, “quali sono le fonti di cui ci possiamo fidare?”, “in base a che cosa posso dire che la cosa che sto per dire è vera?”; troppo spesso si sentono persone portare avanti tesi o opinioni sconclusionate frutto solo della loro creduloneria;

3. Pensare a quello che si dice, che poi non è altro che valutarne le conseguenze, la portata, e assumersene la responsabilità anche rispetto a chi non ne sa nulla e potrebbe essere male informato dalle nostre prese di posizione;
4. Valutare se si è in grado di dire quello che si pensa, se si hanno le conoscenze adeguate per parlare di una certa cosa, se ne si comprende il linguaggio, se si è in grado di esprimere il proprio pensiero in termini corretti senza dover ricorrere a volgarità o usare parole di cui non si sa bene il significato;
5. Infine pensare a quello che si pensa, considerare se davvero la nostra esperienza umana ci ha portato a dire che le cose che pensiamo sono vere o se il nostro pensiero è solo il frutto di una rabbia, di un risentimento, di una nobile e inespressa emozione.

 

Ecco, a queste cinque condizioni, davvero ciascuno può dire quello che pensa e nessuno può impedirglielo. Soltanto l’averle lette, tuttavia, ci fa intendere quanto occorra riflettere prima di dire qualcosa, quanto sia importante – sempre – evitare di dire la prima cosa che ci capita. Una cosa che, normalmente, è sempre quanto meno opinabile.

L'EDITORIALE

IRAN/Quando il problema è di chi comanda

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Che cosa è un cittadino? Usando la definizione di Treccani: “Chi appartiene a uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”. E lo stato non è forse la quintessenza della volontà dei cittadini che lo compongono?

La repressione

Al termine di un 2022 di continue proteste, ci chiediamo se le donne, sempre più soffocate in Iran, si possano definire cittadine di uno stato che non viene loro incontro, e che certamente non le rappresenta.

Perché è indubbiamente semplice chiudere un occhio sull’insignificante questione dei diritti umani, ma irrazionale non aspettarsi che il popolo da te rappresentato non vada d’amore e d’accordo con questa decisione.

Le risposte violente delle autorità, condite da sparatorie sulla folla, interrogatori duri (leggi: tortura) e molti altri trattamenti di favore, fanno presumere che il presidente, Ebrahim Raisi, non abbia davvero tutto sotto controllo, come invece ha fatto intendere nelle sue ultime dichiarazioni.

Il ruolo dello sport

Come già abbiamo potuto osservare in molti scenari di questo stampo, lo sport si fa spesso carico delle voci più coraggiose, che mettono in gioco il percorso di una vita, le fatiche degli allenamenti e la possibilità di partecipare a competizioni importanti, nella speranza di un futuro migliore.

Tutte le donne che dall’Iran fanno sentire la protesta attraverso lo sport vanno riconosciute, ma sentiamo particolarmente vicine la 22enne Mahsa Amini, fermata a Teheran e arrestata perché non indossava correttamente l’hijab, morta tre giorni dopo, e Elnaz Rekabi, la scalatrice vittima di numerose minacce, la cui casa è stata persino demolita (la CNN su Twitter).

“Ci moltiplichiamo”

Queste le parole di speranza che hanno iniziato a circolare su Twitter, da quando Sara Khadim ha partecipato, senza l’hijab, al campionato del mondo di scacchi in Kazakistan. La giovane donna, di soli 25 anni, ha dimostrato una strenua resistenza nei confronti delle minacce ricevute, e il suo contributo alla causa è senz’altro molto discusso.

A farsi sentire, però, non è solo qualche sportivo o alcuni personaggi di rilievo, ma da circa tre mesi continuano le proteste da parte di un popolo piegato dalla tirannia: queste di recente hanno assunto anche i primi colori della violenza (molotov lanciate in edifici religiosi), preannunciando un non così lontano botta e risposta tra polizia e manifestanti.

Fino a che punto si considerano accettabili le azioni di un popolo delegittimato? Ribaltare il potere può davvero portare al miglioramento della condizione delle donne in Iran?

 

 

 

 

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L'EDITORIALE

Il futuro di un ritorno al passato

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La questione ha origine in Russia, paese di cui attualmente si parla parecchio, in questo caso per un motivo differente ma in un qualche modo pertinente: la Duma, la camera bassa del parlamento, ha approvato una legge contro la “propaganda gay”.

Quest’ultima impedirebbe di discutere della cultura lgbt+ e gender non più soltanto ai minorenni, com’era stato dal 2013 a oggi, ma anche agli adulti: infatti anche solo parlarne incentiverebbe a impostazioni sessuali esenti dalla tradizione.

Sarebbe dunque il caso di limitarsi a un’informazione che sostenga invece il concetto di famiglia tradizionale (definizione che include una critica nei confronti di coloro non vogliono avere figli) proprio durante il coinvolgimento in una guerra ibrida e allontanarsi ulteriormente dall’occidente e dal progressismo?

Infatti per il paese calato in una situazione del genere, diventa insufficiente proteggere soltanto i figli, bisogna estendere il provvedimento a tutta la società, nonostante si sottintenda che i suoi legittimi componenti debbano rispettare il prototipo cishet, in nome dell’eteronormatività.

Ognuna delle motivazioni sopra elencate sarebbe valida se non si parlasse di diritti umani e civili, della limitazione della libertà di una parte della comunità in un modo e di questa nella sua totalità in un altro.

Così le violenze a danno di persone lgbt+ sono diffusissime all’interno del paese, molte preferiscono non denunciare per paura di ritorsioni.

Sorge quindi spontaneo chiedersi quali potrebbero essere le prossime evoluzioni di questa situazione: le norme previste subiranno ulteriori restrizioni? o si preferirà lasciar andare la presa, così da contribuire alla diffusione del benessere?

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L'EDITORIALE

L’ideologia non è una strategia

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E’ iniziato tutto poche settimane fa, intorno al caso della nave Ocean Viking: un pasticcio gestito malissimo con una nave carica di più di 230 persone in fuga dall’Africa che non solo non trova rifugio e assistenza presso un porto italiano, ma è costretta a spingersi verso nord, verso Tolone, per ricevere ristoro.

 

VENTI DI CRISI

Fin qui la cosa sarebbe umanitariamente grave, ma politicamente non gravissima: è il governo della destra, insediatosi in Italia non appena un mese fa, che sui migranti decide di dare un segnale forte alla comunità internazionale e che – a voler essere benevoli – si potrebbe declinare con l’antico motto “chi sbarca in Italia, sbarca in Europa”. Il pugno duro, pertanto, potrebbe rappresentare una richiesta forte ai paesi dell’Unione: o ci aiutate o non capite che cosa sta succedendo.

 

L’ERRORE ITALIANO

Il punto è che la cosa andrebbe concordata. Concordata con i nostri partner e costruita nell’ambito di una strategia politica capace di portare al tavolo europeo un problema di tutti. Sembrava averlo capito Meloni, sembrava che tra lei e Macron le cose potessero funzionare, ma qualcuno al ministero non ha aspettato che l’accordo si chiudesse e ha pubblicamente invitato la nave “ad andare in Francia”.

 

LA REAZIONE FRANCESE

Da qui la stizza di un governo d’oltralpe che tutti i giorni deve fronteggiare gli attacchi xenofobi della Le Pen in un parlamento ormai ostile al Presidente. Da qui un lungo gelo scalfito solo dalla telefonata tra Macron e Mattarella, ma che non si è ancora tradotto in una riconciliazione.

 

CONSEGUENZE SUL GAS E SULLE PARTITE DECISIVE

Meloni perde così un alleato importante, un alleato decisivo nella guerra del gas che il nord Europa vorrebbe non combattere perché troppo beneficiario dei risvolti positivi che la congiuntura attuale permette in suo favore. Per fare il pugno duro sull’ideologia, Meloni si ritrova senza strategia. Come se le battaglie, in fondo, si vincessero con le posizioni di principio.

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