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ATTUALITA'

Hacker, invasioni invisibili.

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– Pochi giorni fa l’operazione Avalanche ha posto fine a uno dei network cybercriminali più pericolosi al mondo. Tutto ciò ha comportato la disattivazione di 221 server e più di 830.000 domini web.

Operazione “Avalanche”: come si è sviluppata

Avalanche, la rete informatica criminale, è stata abbattuta da un’operazione che ha coinvolto i membri della Europol (ufficio europeo polizia) e Interpol (organizzazione internazionale della polizia criminale) e le polizie informatiche di 30 paesi. Le indagini sono durate più di 4 anni e hanno portato a scoprire l’esistenza di una rete in grado di distribuire virus e utilizzata per il riciclaggio di denaro sporco. Avalanche inoltre affittava la piattaforma a tutti coloro che erano intenzionati ad espandere un virus a livello mondiale, coinvolgendo più di 500.000 computer. L’operazione si è conclusa con l’arresto di cinque persone e la perquisizione di 37 edifici. “Solo una perfetta sintonia tra le polizie cibernetiche di così tanti Paesi poteva portare alla conclusione di un’operazione così complessa.” dichiara il direttore della polizia postale Roberto Di Legami.

Qual è il vero obbiettivo dei cracker?

Innanzitutto bisogna distinguere tra hacker i white hat e cracker (chiamati anche black hat). I primi lavorano principalmente in sistemi informatici che contengono informazioni molto importanti, ciò non implica, però, che accedano in computer di proprietà di altre persone o che svolgano procedure illegali. Esistono, al contrario, alcuni gruppi di hacker (white hat) che si introducono nei computer per interessi propri o, ad esempio, al fine di ricavare informazioni segrete su progetti di una determinata casa produttrice per poi venderli a un’altra che le fa da concorrenza. I cracker (black hat) invece sono persone che creano virus o per divertimento o, come nella maggior parte dei casi, per ragioni economiche: vendere i loro antivirus. Perciò è sbagliato definire hacker tutti coloro che creano virus poichè anche i membri della polizia postale, che hanno il compito di rendere il web più sicuro, fanno parte di questa grande famiglia.

“perché dovrebbero hackerare me?”

Questa domanda è un atteggiamento comune nelle persone finchè non vengono compromesse da un attacco informatico. Senza contare gli attivisti, gruppi di hacker come Anonymous, che hanno lo scopo di infangare le grandi società in cerca di fama. Alla maggior parte degli hacker interessa guadagnare soldi. Si occupano proprio di rubare informazioni alle persone comuni per ottenere bitcoin, ossia “banconote virtuali”, dalle carte di credito, o per rivenderle al miglior offerente o ancora per ricattare. Passano la vita a trovare sulla rete dati sensibili come codici bancari o informazioni personali da cui ricavare denaro. Quindi è per loro molto più facile attaccare una persona inesperta che lascia i propri dispositivi senza protezioni e facilmente accessibili.

Vari attacchi e come difendersi?

Esistono vari metodi per rubare informazioni ad una persona in rete, in questo articolo vedremo le tecniche di social-engineering, phishing e cracking di password. La soluzione più semplice per non permettere che ciò accada è: NON INSERIRE INFORMAZIONI personali online o inserirne in minima quantità. Quando si crea un account bisogna evitare di inserire i campi di informazioni non obbligatorie per la creazione dello stesso. Senza nessun bisogno di abilità informatiche avanzate un hacker può accedere a informazioni private tramite quello che le persone rendono pubblico. Gli hacker effettuano come operazione preliminare ad un attacco, azioni di social-engineering, ossia ricerche su CHI È la vittima designata. Oggigiorno con miliardi di persone collegate online basta semplicemente una ricerca su facebook per avere email, data di nascita e passioni di chiunque. Se l’hacker ha qualche conoscenza di programmazione può avvalersi anche del phishing. La tecnica permette per esempio di “clonare” un sito web mantenendo l’interfaccia, ma modificando il codice, in modo che l’utente non si accorga che inserendo una password questa venga carpita da qualcuno. Per difendersi dal phishing di dati bisogna essere scaltri e accorgersi che il sito a cui si accede non è quello da noi desiderato. Spesso l’hacker manda email false contenti la pagina web truffaldina, bisogna quindi aprire link contenuti solo in email di cui si è più che certi dell’autenticità. Se riuscite a evitare le pagine phisher, l’hacker ha comunque la possibilità di ottenere le vostre passphrase usando tecniche di cracking. Esistono software che in pochi minuti effettuano la verifica di migliaia di possibili password finchè non trovano quella corretta. Per proteggersi da questo problema bisogna di nuovo rendere difficile all’hacker ottenere informazioni riguardo alle proprie abitudini e informazioni. cobebryan97, juventus00, marco_rossi82 migliaia di utenti formano password simili a queste associando nome, soprannome, data di nascita, hobby, star preferite e informazioni personali facilmente rintracciabili. In media non ci vuole più di 5 minuti per crackare questo tipo di password, basta infatti aggiungere allo script creato molte informazioni riguardo la vittima, in modo che il programma le usi per ridurre le possibilità di combinazioni. Un altro consiglio consiste nel creare una password lunga almeno 15 caratteri e di utilizzare lettere sia maiuscole che minuscole, numeri e simboli. Senza entrare troppo nel tecnico né dover avere conoscenze avanzate di informatica, seguendo questi passi riuscirete a proteggervi da un attacco in maniera più efficace rispetto a prima. Non voglio però illudervi. La cyber-security è una materia difficilissima da gestire, richiede anni di studi, pratica e una certa intelligenza quasi innata. E’ molto più facile attaccare che difendere e praticamente NON ESISTE una password perfetta come non esiste una serratura inaccessibile. Ogni rompicapo ha sempre una soluzione e gli hacker vivono e godono nel risolvere rompicapi sempre più difficili.

 

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POLITICA E ALIMENTAZIONE/La guerra agli hamburger di soia

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I prodotti a base vegetale stanno riempiendo sempre di più gli scaffali dei supermercati italiani.

Oggi è possibile sostituire i tradizionali prodotti a base di carne con hamburger di soia, salsicce di seitan o polpette vegetali. Il nome “hamburger di soia”, per esempio, può risultare paradossale, ma non in un mondo dove il futuro della carne è vegetale.

9 italiani su 10 sono favorevoli all’utilizzo di termini come questo, che rimandano inevitabilmente al mondo della carne con lo scopo di rendere il consumatore più consapevole del prodotto e promuovono scelte alimentari più salutari e sostenibili. È indubbio che si tratti di marketing, ma è davvero un tema su cui dover discutere?

Per alcuni deputati della Camera, sì.

Una proposta di legge che vuole vietare l’uso di nomi riconducibili alla carne per i prodotti vegetali è stata infatti presentata nella Commissione Agricoltura della Camera. L’obiettivo di questa legge è quello di difendere gli allevamenti e la produzione di carne italiana, che sarebbero svantaggiati dalla concorrenza di scelte alternative. Prodotti come la “bresaola di seitan” o la “bistecca di tofu” potrebbero, secondo i promotori della legge, indurre chi compra a pensare erroneamente che questi alimenti siano esattamente identici alla carne a livello nutrizionale.

Secondo l’organizzazione per i diritti animali “Essere Animali”, l’argomento della legge è fuorviante, perché ci sono differenze nutrizionali anche tra prodotti a base di carni diverse con lo stesso nome. I prodotti che usano questo tipo di termini, inoltre, avvicinano le persone a un’alimentazione più veg, una scelta migliore non solo per la salute ma anche per l’ambiente.

La proposta di legge, infatti, non considera i vantaggi a livello di sostenibilità ambientale che offre l’alimentazione vegetale: un report della Commissione Europea ha dimostrato che il settore zootecnico (una parte del settore primario che consiste nell’allevamento, nell’addomesticamento e nello sfruttamento di animali a fini produttivi) è responsabile per l’81- 86% delle emissioni totali di gas serra nell’agricoltura.

Per questi motivi Essere Animali ha lanciato una petizione per chiedere al Governo di impegnarsi a bloccare la proposta.

 

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MALASANITÀ/Il dramma del neonato morto al Pertini

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L’otto gennaio di quest’anno, al ospedale Pertini di Roma un neonato è morto soffocato quando la madre che lo stava allattando si addormenta.

Successivamente la procura ha aperto un fascicolo: “omicidio colposo”.

Intanto però la notizia si diffonde, e il padre del neonato racconta al Messaggero di come la donna fosse sfinita e priva di energie dopo ben 17 ore di travaglio.

La moglie aveva più volte chiesto ai responsabili del reparto di portare il neonato al nido del ospedale per poter riposare, anche solo per qualche ora.

Ma il permesso le era sempre stato negato.

Nei giorni successivi il fatto ha scatenato un accesso dibattito riguardante le procedure post-parto degli ospedali.

Infatti, negli ospedali solitamente è previsto il cosiddetto “rooming-in”, ovvero il neonato subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa stanza della madre anziché in una camera in comune con altri neonati.

A questa pratica però, dovrebbe essere sempre proposta un alternativa cioè la gestione dei neonati da parte del Asilo del ospedale, fino al termine della permanenza.

Questa seconda opportunità non viene sempre tenuta in considerazione, e centinaia di donne nei giorni scorsi hanno raccontato la loro esperienza denunciando che la possibilità di usufruire del nido ospedaliero sia stata loro  negata.

Le domande che ci si pongono in questi casi sono molteplici: Cosa sarebbe accaduto se questa donna avesse potuto riposare per qualche ora? O anche solo sé qualcuno avesse avuto cura si sorvegliarla e assisterla? La pratica di rooming-in vale per qualsiasi situazione? È  davvero la scelta più adeguata?

Il drammatico evento che ha portato  il decesso del neonato di Roma dovrebbe stimolare le coscienze e una azione diretta delle istituzioni per tutelare maggiormente la salute delle donne dopo il parto.

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DALL'EUROPA

MODA/Un italiano al timone di Luis Vuitton

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Pietro Beccari è il nuovo amministratore delegato e presidente di Louis Vuitton. Un italiano, dunque, guiderà la marca francese di lusso più nota al mondo fondata da Bernard Arnault. Beccari succederà a Michael Burke. Mentre alla guida di Dior andrà Delphine Arnault, figlia primogenita dell’imprenditore attualmente “uomo più ricco del mondo” secondo Forbes. Un cambio ai vertici che era nell’aria e attendeva solo la conferma ufficiale. Questo è forse il primo dei molti i cambiamenti che attendono il mondo della moda per questo 2023, nel management come nelle direzioni creative.

Pietro Beccari, parmense classe 1967, ha iniziato il suo percorso professionale nel settore marketing di Benckiser (Italia) e Parmalat (Usa), per poi passare alla direzione generale di Henkel in Germania, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della divisione Haircare.

Nel 2006 è entrato in LVMH in qualità di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione per Louis Vuitton, prima di diventare Presidente e ceo di Fendi nel 2012. Da febbraio 2018 è presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del comitato esecutivo di LVMH.

“Pietro Beccari”, ha commentato Bernard Arnault, fondatore e CEO di LVMH: “ha svolto un lavoro eccezionale in Christian Dior negli ultimi cinque anni. La sua leadership ha accelerato il fascino e il successo di questa iconica Maison. I valori di eleganza di Monsieur Dior e il suo spirito innovativo hanno ricevuto una nuova intensità, supportata da designer di grande talento. La reinvenzione della storica boutique al 30 di Montaigne è emblematica di questo slancio. Sono certo che Pietro condurrà Louis Vuitton a un nuovo livello di successo e di desiderabilità”.

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