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ATTUALITA'

Il vero antidoto alla mafia è la nostra libertà

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a cura della VA del Classico

Si fa di nuovo un gran parlare in questi giorni del rapporto tra la criminalità organizzata e i comuni d’Italia. Pochi mesi fa alcuni alunni di quinta hanno incontrato Giovanni Impastato. Suo fratello è stato ucciso dalla mafia nel 1978 perché troppo per bene, troppo libero. Vale la pena rileggersi le loro parole. E farne tesoro.

Venerdì 23 ottobre il signor Giovanni Impastato, fratello di Peppino, ci ha concesso la possibilità di approfondire, e talvolta scoprire, la toccante storia di un ragazzo comune vittima del mondo mafioso. Questa esperienza ha permesso a noi e a tutti i presenti di sentire sulla pelle il peso delle ingiustizie commesse da questo mondo criminale, sentito troppo spesso come distante, ma che in realtà non è mai stato così integrato nel sistema come in questo momento. Giovanni, dopo l’ omicidio di Peppino, ha deciso di portare avanti la causa del fratello, dedicando la propria vita alla sua memoria. Originari di Cinisi, paesino siciliano, i due fratelli sono cresciuti in una famiglia legata alla Mafia, inconsapevoli che il loro apparente benessere provenisse dalla criminalità organizzata. Dopo eventi traumatizzanti, Peppino matura la convinzione di dover combattere il sistema corrotto attraverso l’assidua partecipazione civile. Per tutta la vita coltiva in se stesso il bisogno di giustizia e trasparenza politica, trovando modo di esprimersi attraverso tutti i mezzi di comunicazione a lui disponibili, consapevole del rischio che correva, organizzando manifestazioni, assemblee, centri culturali e creando una sua radio locale, Aut, con una nuova tipologia di informazione indipendente in cui criticava con ironia e senza mezzi termini i potenti mafiosi del suo paese.
Giovanni ha sottolineato la difficile posizione dei genitori, i quali erano
bene a conoscenza del destino che sarebbe spettato al figlio. La madre, Felicia, non affermò mai che la sua battaglia fosse sbagliata, ma cercò di fermarlo e salvarlo, proteggendolo come meglio poté. Il padre invece, parte integrante della rete mafiosa, fu un assiduo oppositore della lotta del figlio, ma cercò, con i mezzi di cui disponeva,
di ingraziargli i suoi superiori.
Il 9 maggio 1978 Peppino viene ucciso e astuto fu il modo con cui la Mafia riuscì a insabbiare il crimine commesso facendolo passare come un atto terroristico, avvenuto lo stesso giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro. A questo punto Giovanni ha voluto esporci la propria critica a proposito delle reti di comunicazione e di informazione odierne: la televisione, ad esempio, è per lui troppo spesso sinonimo di informazione manipolata. Ha quindi esortato tutti i presenti ad analizzare tutte le notizie che ci giungono con imparzialità, andando sempre a ricercare le fonti più attendibili. Un altro argomento molto importante trattato da Giovanni è la posizione della donna e della madre nella vita del fratello, che nello sviluppo della triste storia avrà un ruolo fondamentale. La mamma Felicia infatti, inizialmente imparziale, dopo la morte del figlio iniziò a lottare perché il ragazzo avesse giustizia, nonostante il pericolo costante che correva. Nel processo per omicidio del figlio fu la prima donna a schierarsi come parte civile opponendosi ai capi mafiosi.
Le sue orme furono seguite dall’attuale moglie di Giovanni, sua omonima, che è stata per noi un’importante testimone.
A fine incontro un ragazzo presente si è posto la seguente domanda: “Non avete paura a perseguire questa lotta così rischiosa?”. Sia Giovanni sia Felicia hanno ammesso di avere costantemente paura sopratutto per la vita dei figli.
Hanno così avuto modo di raccontarci episodi di minacce a loro accadute come la deturpazione di pareti e l’appicco di incendi a locali di loro proprietà. In conclusione, nonostante i vari temi trattati all’incontro, ciò che più
ha colpito tutti è stata la positività che traspariva dalle loro parole, trasmettendo una genuina energia basata sulla fiducia nelle istituzioni e nel ricordo vivo del fratello, chiaro messaggio che spinge a non arrendersi di fronte alle ingiustizie e di credere nello stato.

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ATTUALITA'

MALASANITÀ/Il dramma del neonato morto al Pertini

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L’otto gennaio di quest’anno, al ospedale Pertini di Roma un neonato è morto soffocato quando la madre che lo stava allattando si addormenta.

Successivamente la procura ha aperto un fascicolo: “omicidio colposo”.

Intanto però la notizia si diffonde, e il padre del neonato racconta al Messaggero di come la donna fosse sfinita e priva di energie dopo ben 17 ore di travaglio.

La moglie aveva più volte chiesto ai responsabili del reparto di portare il neonato al nido del ospedale per poter riposare, anche solo per qualche ora.

Ma il permesso le era sempre stato negato.

Nei giorni successivi il fatto ha scatenato un accesso dibattito riguardante le procedure post-parto degli ospedali.

Infatti, negli ospedali solitamente è previsto il cosiddetto “rooming-in”, ovvero il neonato subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa stanza della madre anziché in una camera in comune con altri neonati.

A questa pratica però, dovrebbe essere sempre proposta un alternativa cioè la gestione dei neonati da parte del Asilo del ospedale, fino al termine della permanenza.

Questa seconda opportunità non viene sempre tenuta in considerazione, e centinaia di donne nei giorni scorsi hanno raccontato la loro esperienza denunciando che la possibilità di usufruire del nido ospedaliero sia stata loro  negata.

Le domande che ci si pongono in questi casi sono molteplici: Cosa sarebbe accaduto se questa donna avesse potuto riposare per qualche ora? O anche solo sé qualcuno avesse avuto cura si sorvegliarla e assisterla? La pratica di rooming-in vale per qualsiasi situazione? È  davvero la scelta più adeguata?

Il drammatico evento che ha portato  il decesso del neonato di Roma dovrebbe stimolare le coscienze e una azione diretta delle istituzioni per tutelare maggiormente la salute delle donne dopo il parto.

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DALL'EUROPA

MODA/Un italiano al timone di Luis Vuitton

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Pietro Beccari è il nuovo amministratore delegato e presidente di Louis Vuitton. Un italiano, dunque, guiderà la marca francese di lusso più nota al mondo fondata da Bernard Arnault. Beccari succederà a Michael Burke. Mentre alla guida di Dior andrà Delphine Arnault, figlia primogenita dell’imprenditore attualmente “uomo più ricco del mondo” secondo Forbes. Un cambio ai vertici che era nell’aria e attendeva solo la conferma ufficiale. Questo è forse il primo dei molti i cambiamenti che attendono il mondo della moda per questo 2023, nel management come nelle direzioni creative.

Pietro Beccari, parmense classe 1967, ha iniziato il suo percorso professionale nel settore marketing di Benckiser (Italia) e Parmalat (Usa), per poi passare alla direzione generale di Henkel in Germania, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della divisione Haircare.

Nel 2006 è entrato in LVMH in qualità di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione per Louis Vuitton, prima di diventare Presidente e ceo di Fendi nel 2012. Da febbraio 2018 è presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del comitato esecutivo di LVMH.

“Pietro Beccari”, ha commentato Bernard Arnault, fondatore e CEO di LVMH: “ha svolto un lavoro eccezionale in Christian Dior negli ultimi cinque anni. La sua leadership ha accelerato il fascino e il successo di questa iconica Maison. I valori di eleganza di Monsieur Dior e il suo spirito innovativo hanno ricevuto una nuova intensità, supportata da designer di grande talento. La reinvenzione della storica boutique al 30 di Montaigne è emblematica di questo slancio. Sono certo che Pietro condurrà Louis Vuitton a un nuovo livello di successo e di desiderabilità”.

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ATTUALITA'

SCONTRO TRA TIFOSI SULLA A1/ quando la partita si “gioca” anche fuori dal campo

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Domenica otto gennaio, sulla A1, i tifosi del Napoli battezzano l’anno nuovo con le spranghe.

È l’area di servizio Badia al Pino, nei pressi di Arezzo, l’autogrill che ha dato luogo allo scontro tra gli ultrà del Napoli e quelli della Roma.

Secondo quanto riportato dalle fonti della polizia, sarebbero 80 tifosi partenopei che, con certezza, erano presenti in quel luogo al momento delle scontro con gli abitanti della capitale, e che stanno cercando di identificare.

Invece, quattro sarebbero i tifosi napoletani, di età compresa tra i 21 e i 27 anni, ad essere stati inseguiti e successivamente fermati dagli agenti di polizia, intenti a forzare un posto di blocco a Genova Nervi. Nel loro bagagliaio erano presenti delle mazze.

 

La ricostruzione dei fatti:

Secondo i dati riportati, i tifosi napoletani diretti a Genova, che si sono fermati nell’area di servizio che ha ospitato lo scontro, sarebbero stati circa 350. A intervenire subito sul luogo è stato il personale delle forze di polizia di Arezzo, che ha impedito che la situazione, già critica di per sé, si aggravasse in modo precipitoso. Il corpo di polizia avrebbe, infatti, fermato in tempo il transito di tifosi romanisti i quali, si era appreso, che fossero diretti nello stesso itinerario, per raggiungere lo stadio San Siro di Milano(per lo scontro con il Milan).

Ad aggiungersi a quelli provenienti da Arezzo, sarebbero stati altri agenti, diretti da Arno.

I tifosi della Roma in transito raccontano del loro viaggio verso Milano: una volta nei pressi di Genova, entrati a conoscenza della presenza dei partenopei nelle vicinanze, la marcia sarebbe rallentata, fino a fermarsi all’area di sosta. Proprio in questo luogo, una parte dei tifosi campani, posizionatosi lungo la recinzione, ha iniziato a scagliare oggetti contro le autovetture degli avversari.

Immediatamente, entrambi gli esponenti delle tifoserie si sono trasferiti verso l’uscita dell’area di sosta, dove i lanci di oggetti, quali bottiglie, coltelli, spranghe, fumogeni e non solo, sono continuati per brevi attimi; proprio in questo momento, un tifoso romanista sarebbe rimasto ferito da un’arma da taglio risultando in codice giallo.

In seguito all’accaduto, i tifosi romanisti sarebbero poi ripartiti dopo poco tempo, mentre i napoletani scortati dalle forze di polizia fino alla Stadio Luigi Ferraris di Genova, dove si é tenuto il match Sampdoria-Napoli.

In direzione nord, l’autostrada é rimasta chiusa per circa cinquanta minuti.

Quanto accaduto non risulta essere un fatto eccezionale. Gli scontri tra squadre avversarie, scaturiti dal desiderio di vendetta, o da semplice smania di violenza, avvengono, purtroppo, in modo molto frequente; esattamente come furti e atti vandalici nelle aree di servizio.

E allora diventa inevitabile domandarsi: è lecito che il tifo si trasformi in delinquenza?

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