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L'EDITORIALE

La rivoluzione di Fidel e la borsa della spesa

La rivoluzione di Castro mostra ancora oggi il suo fascino e la sua forza, ma interpella tutti a comprendere in che modo essa può essere davvero realizzata.

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– di Federico Pichetto

– La rivoluzione di Castro mostra ancora oggi il suo fascino e la sua forza, ma interpella tutti a comprendere in che modo essa può essere davvero realizzata.

 

IL FASCINO DI FIDEL

Pochi uomini hanno saputo esercitare fascino e influenza sui giovani, di ieri e di oggi, come ha saputo fare Fidel Castro. Il suo “sogno” rivoluzionario trasformato in “regime”, e affogato spesso nel sangue della repressione, è sopravvissuto al suo stesso fallimento. Cuba si è già avviata da alcuni anni (almeno dalla storica visita sull’isola di Giovanni Paolo II del 1998) verso un processo di progressiva “normalizzazione” eppure – al di là di tutto – essa continua a rimanere nel mondo l’emblema di un’alternativa, necessaria e possibile, al modello di sviluppo capitalista basato sul lavoro come merce e sul profitto come vera cifra del successo.

 

UN LEADER FALLITO?

Cuba negli anni di Fidel non è diventata più forte e più ricca, ma ha semplicemente ricordato a tutti che il sistema produttivo cui siamo abituati e che, secondo l’ideologia marxista, avrebbe prodotto anche la sovrastruttura politica e culturale che lo tiene in piedi, è uno dei tanti sistemi possibile, ma certamente non il migliore né il più giusto. L’ideale di Castro, quella comunità di uomini liberi che gestisce nella condivisione reciproca i beni della terra e collabora attivamente all’equa ripartizione delle risorse, ha sempre avuto il pregio di fare da contraltare al senso di solitudine e di abbandono tipico del mondo occidentale ed economicamente avanzato. Sembra strano come anche oggi, nel giorno della sua morte, gli errori di Castro – la pervicace negazione di numerosi diritti civili e il disprezzo per i suoi oppositori accusati sempre di essere “cospiratori” – riescano a passare in secondo piano rispetto a quello che il Comandante, insieme al Che, hanno evocato e provato ad incarnare, ossia il sogno di un mondo diverso, di un luogo più vero e più giusto dove vivere la propria felicità. Non sono pochi quelli che adesso lo omaggiano e lo rimpiangono, quasi che la sua forza rivoluzionaria sia stata annichilita non dai limiti intriseci della ricetta sociale e politica che sapeva proporre, ma dal vortice economico mondiale che l’ha dapprima osteggiata per poi, lentamente ma inesorabilmente, consumarla dall’esterno con sanzioni e provvedimenti che, mettendola all’angolo, l’hanno obbligata a capitolare.

 

LA PERCEZIONE DI UNA GRANDE PERDITA

Non si può discettare troppo su Cuba senza esserci mai stati. Di certo, quello che in questo giorno di fine novembre rimane nei nostri occhi, è la sensazione che molti cubani hanno sempre avuto di Castro come di un “padre buono e premuroso”, la percezione che sia morto forse uno degli ultimi veri leader della terra, il senso di amarezza che circonda una notizia certamente non inaspettata, ma non per questo meno difficile da accettare. Il dramma di Fidel non è stato dunque nei suoi sogni, ancora oggi condivisi e ammirati da tante generazioni, ma la pretesa che essi si realizzassero cambiando le strutture e gli equilibri di potere del mondo. La rivoluzione di Castro prevedeva che il cuore degli uomini sarebbe cambiato con il mutare dell’architettura politica ed economica della nazione, rendendo – anche a caro prezzo – tutti più buoni, più onesti, più veri.

 

DAL SOGNO RIVOLUZIONARIO ALLA BORSA DELLA SPESA

In realtà, lo vediamo tutti i giorni, il cuore cambia se sperimenta un bene, se intuisce un valore, se percorre una strada. Per questo non può non venire in mente che il Comandante si è spento proprio nel giorno in cui in Italia in tutti i supermercati si vive la XX giornata nazionale della Colletta Alimentare per le famiglie più povere e bisognose: un gesto banalissimo, quasi impercettibile, che – però – insieme ai tanti altri gesti banali di tutti, cambia davvero il nostro modo di usare i beni della terra e di condividerne la ricchezza. Alla fine il sogno di Fidel non aveva bisogno tanto di carri armati o di interminabili comizi, quanto di una mano che fosse disponibile ad usare in modo diverso la propria borsa della spesa. Sembra banale, forse dozzinale, ma questo gesto – che noi chiamiamo carità – è l’unico gesto in grado di cambiare davvero il mondo perché, lentamente, cambia anzitutto il cuore dell’uomo e lo rende disponibile a vedere l’altro non come un nemico, ma come un bene per sé. La storia cambia certamente coi tempi della libertà e con quelli dei sogni. Ma forse, ancor di più, essa cambia con il tempo dell’educazione, quell’arte lenta che l’uomo possiede nel trasmettere pazientemente all’altro il valore delle cose. Quel tempo che è mancato a Castro e che adesso Cuba deve tornare ad imparare.

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IRAN/Quando il problema è di chi comanda

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Che cosa è un cittadino? Usando la definizione di Treccani: “Chi appartiene a uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”. E lo stato non è forse la quintessenza della volontà dei cittadini che lo compongono?

La repressione

Al termine di un 2022 di continue proteste, ci chiediamo se le donne, sempre più soffocate in Iran, si possano definire cittadine di uno stato che non viene loro incontro, e che certamente non le rappresenta.

Perché è indubbiamente semplice chiudere un occhio sull’insignificante questione dei diritti umani, ma irrazionale non aspettarsi che il popolo da te rappresentato non vada d’amore e d’accordo con questa decisione.

Le risposte violente delle autorità, condite da sparatorie sulla folla, interrogatori duri (leggi: tortura) e molti altri trattamenti di favore, fanno presumere che il presidente, Ebrahim Raisi, non abbia davvero tutto sotto controllo, come invece ha fatto intendere nelle sue ultime dichiarazioni.

Il ruolo dello sport

Come già abbiamo potuto osservare in molti scenari di questo stampo, lo sport si fa spesso carico delle voci più coraggiose, che mettono in gioco il percorso di una vita, le fatiche degli allenamenti e la possibilità di partecipare a competizioni importanti, nella speranza di un futuro migliore.

Tutte le donne che dall’Iran fanno sentire la protesta attraverso lo sport vanno riconosciute, ma sentiamo particolarmente vicine la 22enne Mahsa Amini, fermata a Teheran e arrestata perché non indossava correttamente l’hijab, morta tre giorni dopo, e Elnaz Rekabi, la scalatrice vittima di numerose minacce, la cui casa è stata persino demolita (la CNN su Twitter).

“Ci moltiplichiamo”

Queste le parole di speranza che hanno iniziato a circolare su Twitter, da quando Sara Khadim ha partecipato, senza l’hijab, al campionato del mondo di scacchi in Kazakistan. La giovane donna, di soli 25 anni, ha dimostrato una strenua resistenza nei confronti delle minacce ricevute, e il suo contributo alla causa è senz’altro molto discusso.

A farsi sentire, però, non è solo qualche sportivo o alcuni personaggi di rilievo, ma da circa tre mesi continuano le proteste da parte di un popolo piegato dalla tirannia: queste di recente hanno assunto anche i primi colori della violenza (molotov lanciate in edifici religiosi), preannunciando un non così lontano botta e risposta tra polizia e manifestanti.

Fino a che punto si considerano accettabili le azioni di un popolo delegittimato? Ribaltare il potere può davvero portare al miglioramento della condizione delle donne in Iran?

 

 

 

 

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Il futuro di un ritorno al passato

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La questione ha origine in Russia, paese di cui attualmente si parla parecchio, in questo caso per un motivo differente ma in un qualche modo pertinente: la Duma, la camera bassa del parlamento, ha approvato una legge contro la “propaganda gay”.

Quest’ultima impedirebbe di discutere della cultura lgbt+ e gender non più soltanto ai minorenni, com’era stato dal 2013 a oggi, ma anche agli adulti: infatti anche solo parlarne incentiverebbe a impostazioni sessuali esenti dalla tradizione.

Sarebbe dunque il caso di limitarsi a un’informazione che sostenga invece il concetto di famiglia tradizionale (definizione che include una critica nei confronti di coloro non vogliono avere figli) proprio durante il coinvolgimento in una guerra ibrida e allontanarsi ulteriormente dall’occidente e dal progressismo?

Infatti per il paese calato in una situazione del genere, diventa insufficiente proteggere soltanto i figli, bisogna estendere il provvedimento a tutta la società, nonostante si sottintenda che i suoi legittimi componenti debbano rispettare il prototipo cishet, in nome dell’eteronormatività.

Ognuna delle motivazioni sopra elencate sarebbe valida se non si parlasse di diritti umani e civili, della limitazione della libertà di una parte della comunità in un modo e di questa nella sua totalità in un altro.

Così le violenze a danno di persone lgbt+ sono diffusissime all’interno del paese, molte preferiscono non denunciare per paura di ritorsioni.

Sorge quindi spontaneo chiedersi quali potrebbero essere le prossime evoluzioni di questa situazione: le norme previste subiranno ulteriori restrizioni? o si preferirà lasciar andare la presa, così da contribuire alla diffusione del benessere?

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L’ideologia non è una strategia

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E’ iniziato tutto poche settimane fa, intorno al caso della nave Ocean Viking: un pasticcio gestito malissimo con una nave carica di più di 230 persone in fuga dall’Africa che non solo non trova rifugio e assistenza presso un porto italiano, ma è costretta a spingersi verso nord, verso Tolone, per ricevere ristoro.

 

VENTI DI CRISI

Fin qui la cosa sarebbe umanitariamente grave, ma politicamente non gravissima: è il governo della destra, insediatosi in Italia non appena un mese fa, che sui migranti decide di dare un segnale forte alla comunità internazionale e che – a voler essere benevoli – si potrebbe declinare con l’antico motto “chi sbarca in Italia, sbarca in Europa”. Il pugno duro, pertanto, potrebbe rappresentare una richiesta forte ai paesi dell’Unione: o ci aiutate o non capite che cosa sta succedendo.

 

L’ERRORE ITALIANO

Il punto è che la cosa andrebbe concordata. Concordata con i nostri partner e costruita nell’ambito di una strategia politica capace di portare al tavolo europeo un problema di tutti. Sembrava averlo capito Meloni, sembrava che tra lei e Macron le cose potessero funzionare, ma qualcuno al ministero non ha aspettato che l’accordo si chiudesse e ha pubblicamente invitato la nave “ad andare in Francia”.

 

LA REAZIONE FRANCESE

Da qui la stizza di un governo d’oltralpe che tutti i giorni deve fronteggiare gli attacchi xenofobi della Le Pen in un parlamento ormai ostile al Presidente. Da qui un lungo gelo scalfito solo dalla telefonata tra Macron e Mattarella, ma che non si è ancora tradotto in una riconciliazione.

 

CONSEGUENZE SUL GAS E SULLE PARTITE DECISIVE

Meloni perde così un alleato importante, un alleato decisivo nella guerra del gas che il nord Europa vorrebbe non combattere perché troppo beneficiario dei risvolti positivi che la congiuntura attuale permette in suo favore. Per fare il pugno duro sull’ideologia, Meloni si ritrova senza strategia. Come se le battaglie, in fondo, si vincessero con le posizioni di principio.

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