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L'EDITORIALE

La verità di cui abbiamo vergogna

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di Federico Pichetto

– La nostra mente sopporta malvolentieri di stare in contatto con la verità, con la realtà, con quello che c’è. Sentiamo dentro di noi la spinta – il bisogno – di raccontare, di raccontarci, una storia convincente, che ci tranquillizzi e ci dia l’impressione che tutto sia chiaro, che tutto vada bene. Nasce da questo atteggiamento di fondo il nostro continuo pensare al passato e il nostro, altrettanto continuo, vagheggiare sul futuro: è rassicurante avere un passato con cui tormentarci o consolarci e un futuro con cui sognare o in cui rifugiarci. I racconti ci mettono al riparo dalla verità, dall’urto con la vita, dalla consapevolezza che innescherebbe in noi la spirale del cambiamento. Succede nelle grandi storie d’amore o nei matrimoni: per tenere la nostra relazione in piedi, per darle un senso, ce la raccontiamo – e la raccontiamo – decine di volte in modo da convincerci che, nel bene o nel male, le cose stiano proprio così, come diciamo e pensiamo noi. E questo accade anche nelle nostre cose, sul lavoro, nello studio, nelle nostre idee: tutto cerca di diventare una narrazione da ripeterci per convincere anzitutto noi stessi di una determinata verità, che quella che ci narriamo sia realmente la verità. Da mesi assistiamo a stragi, rapimenti, eccidi attorno a noi e ogni volta cerchiamo di capire, di raccontare, di manomettere le cose pensando ad altro, raccontandoci una qualche storiella rassicurante, mentre la verità è molto più semplice: qualcuno nel mondo ci odia, qualcuno è in guerra contro di noi e ci vuole morti. Noi siamo un paese in guerra, un paese in pericolo. Eppure nessuno lo ammette e tutto sembra sia più importante e interessante che affrontare la drammatica realtà. Eppure, dice Zola, “quando la verità viene sepolta, essa cresce, soffoca, accumula una tale forza esplosiva che, il giorno che scoppia, fa saltare ogni cosa con sé”. Per cui, a questa nostra fuga costante dal presente, dalle cose per quello che sono, sembra non esserci altro rimedio che un amaro risveglio, l’accorgerci della reazione a catena provocata attorno a noi, e in noi, da quello che volontariamente – o involontariamente – abbiamo ignorato. Davvero la nostra unica speranza è allora che questa fuga, quest’allontanamento dalla vita, si fermi, si interrompa. Non è a causa di una tragedia o di una circostanza irreparabile, bensì grazie ad uno sguardo d’amore, che miracolosamente ci faccia riprendere coscienza di dove siamo e di quello che vogliamo, che possiamo essere restituiti a noi stessi. Semplicemente più umili, semplicemente più disponibili a non raccontarci più storie, ma a dirci – senza più remore o risentimenti – le cose come stanno. Nella certezza che solo abbracciando quello che siamo, il nostro bisogno e il nostro disagio, possiamo ricominciare il lungo cammino che ci separa da quello che desideriamo. Che ci separa dalla nostra casa.

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L'EDITORIALE

ISTRUZIONE/A scuola si muore

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1) Ti sparano

L’istruzione è un diritto. In una società moderna come la nostra non ci dovrebbe essere ombra di dubbio. Forse un diritto potrebbe essere anche quello di sentirsi al sicuro nelle scuole, quanto basta da non essere freddati in corridoio.

In un istituto del Tennessee, USA, ieri hanno ammazzato tre adulti e tre bambini. Colpevoli due fucili d’assalto e una pistola, di certo non il materiale per un colloquio con la maestra.

È una storia già sentita, i nomi degli assassini si ricordano poco, quelli delle vittime anche meno. Ogni volta che sparano a scuola questioniamo (legittimamente) chi ha premuto il grilletto, ma poco importa ai più il fatto che parte delle armi sono state acquistate legalmente. Qualcuno ha permesso una facile distribuzione delle armi da fuoco.

Non per minimizzare le vite di coloro che a scuola lavoravano, ma sono morti dei bambini di nove anni, che a scuola andavano obbligati. Da qualche parte ci sono dei genitori che hanno mandato a morte i propri figli, aiutandoli a fare lo zainetto la mattina.

2) Ti uccidi

Non dobbiamo cercare negli Stati Uniti gli studenti che si sono tolti la vita a scuola, ce ne sono molti anche in Italia. In questo caso risulta più difficile puntare il dito contro il reo, dato che l’azione più estrema di tutte è il frutto di molti fattori, che conosce solo chi decide di compierla.

Però ci si può chiedere: perchè a scuola?

Magari la goccia che fa traboccare il vaso è un attacco d’ansia, magari l’obiettivo è mandare un messaggio. Nella seconda ipotesi, la più probabile a mio avviso, si intravede il ruolo significativo ricoperto dal luogo, dove si insegna, si impara, si cresce. Si lascia il segno, anche. Magari il silenzioso e inascoltato grido d’aiuto della 19enne che due mesi fa si è suicidata allo IULM di Milano, nei bagni, sarà ricordato.

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L'EDITORIALE

IRAN/Quando il problema è di chi comanda

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Che cosa è un cittadino? Usando la definizione di Treccani: “Chi appartiene a uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”. E lo stato non è forse la quintessenza della volontà dei cittadini che lo compongono?

La repressione

Al termine di un 2022 di continue proteste, ci chiediamo se le donne, sempre più soffocate in Iran, si possano definire cittadine di uno stato che non viene loro incontro, e che certamente non le rappresenta.

Perché è indubbiamente semplice chiudere un occhio sull’insignificante questione dei diritti umani, ma irrazionale non aspettarsi che il popolo da te rappresentato non vada d’amore e d’accordo con questa decisione.

Le risposte violente delle autorità, condite da sparatorie sulla folla, interrogatori duri (leggi: tortura) e molti altri trattamenti di favore, fanno presumere che il presidente, Ebrahim Raisi, non abbia davvero tutto sotto controllo, come invece ha fatto intendere nelle sue ultime dichiarazioni.

Il ruolo dello sport

Come già abbiamo potuto osservare in molti scenari di questo stampo, lo sport si fa spesso carico delle voci più coraggiose, che mettono in gioco il percorso di una vita, le fatiche degli allenamenti e la possibilità di partecipare a competizioni importanti, nella speranza di un futuro migliore.

Tutte le donne che dall’Iran fanno sentire la protesta attraverso lo sport vanno riconosciute, ma sentiamo particolarmente vicine la 22enne Mahsa Amini, fermata a Teheran e arrestata perché non indossava correttamente l’hijab, morta tre giorni dopo, e Elnaz Rekabi, la scalatrice vittima di numerose minacce, la cui casa è stata persino demolita (la CNN su Twitter).

“Ci moltiplichiamo”

Queste le parole di speranza che hanno iniziato a circolare su Twitter, da quando Sara Khadim ha partecipato, senza l’hijab, al campionato del mondo di scacchi in Kazakistan. La giovane donna, di soli 25 anni, ha dimostrato una strenua resistenza nei confronti delle minacce ricevute, e il suo contributo alla causa è senz’altro molto discusso.

A farsi sentire, però, non è solo qualche sportivo o alcuni personaggi di rilievo, ma da circa tre mesi continuano le proteste da parte di un popolo piegato dalla tirannia: queste di recente hanno assunto anche i primi colori della violenza (molotov lanciate in edifici religiosi), preannunciando un non così lontano botta e risposta tra polizia e manifestanti.

Fino a che punto si considerano accettabili le azioni di un popolo delegittimato? Ribaltare il potere può davvero portare al miglioramento della condizione delle donne in Iran?

 

 

 

 

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L'EDITORIALE

Il futuro di un ritorno al passato

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La questione ha origine in Russia, paese di cui attualmente si parla parecchio, in questo caso per un motivo differente ma in un qualche modo pertinente: la Duma, la camera bassa del parlamento, ha approvato una legge contro la “propaganda gay”.

Quest’ultima impedirebbe di discutere della cultura lgbt+ e gender non più soltanto ai minorenni, com’era stato dal 2013 a oggi, ma anche agli adulti: infatti anche solo parlarne incentiverebbe a impostazioni sessuali esenti dalla tradizione.

Sarebbe dunque il caso di limitarsi a un’informazione che sostenga invece il concetto di famiglia tradizionale (definizione che include una critica nei confronti di coloro non vogliono avere figli) proprio durante il coinvolgimento in una guerra ibrida e allontanarsi ulteriormente dall’occidente e dal progressismo?

Infatti per il paese calato in una situazione del genere, diventa insufficiente proteggere soltanto i figli, bisogna estendere il provvedimento a tutta la società, nonostante si sottintenda che i suoi legittimi componenti debbano rispettare il prototipo cishet, in nome dell’eteronormatività.

Ognuna delle motivazioni sopra elencate sarebbe valida se non si parlasse di diritti umani e civili, della limitazione della libertà di una parte della comunità in un modo e di questa nella sua totalità in un altro.

Così le violenze a danno di persone lgbt+ sono diffusissime all’interno del paese, molte preferiscono non denunciare per paura di ritorsioni.

Sorge quindi spontaneo chiedersi quali potrebbero essere le prossime evoluzioni di questa situazione: le norme previste subiranno ulteriori restrizioni? o si preferirà lasciar andare la presa, così da contribuire alla diffusione del benessere?

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