Antonino Sutera, il sacrificio di un ballerino

di Lucrezia Orizi

– Giovedì 23 febbraio le classi quinte si sono recate al Teatro alla Scala per assistere alla serata dedicata a Stravinsky che prevedeva i balletti “Petruska” e ”Le sacre du printemps”. Ecco l’intervista fatta da una studentessa della nostra scuola al Primo ballerino Antonino Sutera.

Che cosa vuol dire per lei essere il primo ballerino della Scala di Milano?

Innanzitutto è un onore per me essere primo ballerino in questo teatro meraviglioso ed è soprattutto la fine di un percorso e l’inizio di un altro, nel senso che per arrivare a questo traguardo – che tutti i ragazzi che iniziano a fare danza sperano di raggiungere – c’è tanto lavoro. È un percorso molto difficile fatto di sacrifici, di tanto lavoro, di passione e anche di sofferenza come in tutti i campi. Per me essere uno dei primi ballerini di questa compagnia è un grande onore ma anche una grande responsabilità perché, comunque, rappresenti il tuo teatro e quando vai all’estero rappresenti il tuo paese. Per me questo  era il sogno più grande, o meglio, io volevo solo diventare bravo poi la nomina a primo ballerino è qualcosa in più che ovviamente è gratificante ma penso che la cosa importante sia arrivare ad essere quello che sono oggi e di questo sono felice.

 

Come mai hai scelto proprio questa strada come percorso di vita e com’è nata la tua passione?

È successo tutto per caso, ho iniziato a fare danza per caso. Sono nato in Sicilia  in un piccolo paesino nell’entroterra dove i ragazzi, come si faceva allora, crescevano per strada giocando a pallone. Non c’erano molte macchine, si girava in bici. Un giorno aprì una scuola di danza (che allora era una grande novità per un piccolo paesino di 1500 anime) avevo 7-8 anni e ho provato. Sinceramente quello con la danza non è stato “amore a prima vista” e la cosa che mi piaceva era il gesto atletico. All’epoca non c’era youtube e, comunque sia, quando tornavo a casa non guardavo balletti. La passione è nata col tempo finché un giorno non feci l’audizione qui alla Scuola della Scala e fui preso. A 10 anni, quindi, ho avuto la possibilità di scegliere se seguire questa strada per il mio futuro aiutato dai miei genitori e questo penso che sia stato da parte loro un atto di grande altruismo nei miei confronti. Io come genitore avrei avuto mille timori, e poi staccarsi da un figlio così giovane…Io ho avuto un po’ di spirito avventuriero per lasciare tutto, ma se non mi avessero sostenuto quando dopo due mesi sentivo già fortissima la mancanza della mia famiglia e di casa e volevo  lasciare tutto, non so. Infine la passione ha prevalso e anche l’ambiente sano della scuola di ballo mi ha aiutato perché richiedeva tanto impegno e tanta disciplina. È andata così quindi, e mi ricordo gli anni della scuola come anni meravigliosi.

 

In questa settimana si parla tanto di noi adolescenti, lei con la sua storia e la sua professionalità che cosa vorrebbe dire a chi è più giovane e tenta di guardare al proprio futuro?

Quello che direi è di lavorare ed impegnarsi sempre in tutto ciò che si fa e bisognerebbe anche sacrificarsi – perché il sacrificio è importante – e di non accontentarsi delle cose semplici che ci si trova davanti. State vivendo una fase in cui la realtà è un po’ sfalsata: l’idea di poter avere l’iphone e il top di gamma subito, non è una buona educazione, così come non è facile far capire a voi, che avete tutto, che le cose richiedono sacrificio e impegno (e questo lo dico proprio come padre). Io sulla mia pelle ho imparato ad apprezzare la fatica, anche perché come ballerino avevo delle doti ma non ne avevo altre quindi ho dovuto impegnarmi molto e su alcuni aspetti della mia preparazione ho dovuto lavorare il doppio degli altri. Questo è quello che cerco di insegnare ai miei figli: lavorate sempre con costanza e con passione in qualunque cosa voi facciate, e cercate di puntare sempre più in alto.

 

Per spostarci sul tema dello spettacolo, quali sono le difficoltà che un ballerino affronta quando interpreta la Sagra?

Per tutti i ballerini che interpretano questa coreografia la difficoltà consiste nell’importanza data al gesto atletico. Ci vuole una preparazione molto accurata perché è un balletto molto fisico. A grandi linee bisogna avere forza esplosiva e resistenza, entrando nello specifico è un linguaggio al quale noi non siamo abituati perché la nostra è una compagnia prettamente classica e questa è una coreografica che coniuga la danza classica e la modern dance. Questa coreografia, poi, volge tutta verso il basso quindi ci sono grandi affondi e plié: questa è la difficoltà maggiore. Allo stesso tempo per me è un privilegio poter danzare questa coreografia perché c’è tanta tecnica, ma l’impegno maggiore consiste nel far sì che la difficoltà tecnica non  impedisca alla parte emozionale dei gesti di arrivare al pubblico.

 

Rispetto al 1913 quant’è difficile oggi danzare sui ritmi della Sagra?

La difficoltà secondo me per un danzatore è la medesima. La partitura, che è una delle più belle e significative di Stravinsky, ha un impatto fortissimo e incredibile e il danzatore, qualsiasi gesto faccia, è comunque sempre più piccolo della potenza di questa musica. La difficoltà quindi è di poter arrivare almeno un gradino sotto all’intensità della partitura altrimenti ne vieni divorato. I conteggi sono irregolari, e quindi per il corpo di ballo si tratta di una prova molto impegnativa, invece per il mio ruolo, che prevede molte parti da “solo”, la difficoltà è forse minore. Il linguaggio coreografico sicuramente aiuta a tenere testa a questa partitura.

 

Ci spieghi dal suo punto di vista la sua scelta interpretativa di Tetley.

A differenza delle altre Sagre, la struttura è differente. Per esempio nella coreografia ideata da Béjart c’è uno scontro-incontro tra l’Eletto e l’Eletta dal quale scaturisce l’amore e quindi la fertilità e la vita. Nella coreografia di Tetley ci sono il Padre, la Madre e l’Eletto, che io interpreto, e rappresento il sacrificio. Nella prima parte si vede la paura dell’Eletto: che fin dall’inizio sento di essere colui che sarà prescelto e dunque, lo spirito di sopravvivenza mi pinge ad essere sempre guardingo, sto attento a chi mi sta intorno, come si vede nel primo assolo, nonostante ciò, nei numeri successivi dopo la lotta vengo ucciso. Nella seconda parte c’è la rinascita, io rinasco per  morire un’altra volta. Nell’ultimo assolo dopo la morte, muovo nuovamente i primi passi: la musica cambia e si vede che nei movimenti sono più instabile (come se fossi Bambi) e poi tutto finisce con il volo finale quindi un ulteriore sacrificio. Si tratta quindi di un impianto narrativo quasi astratto, basato sui cicli sella natura.