Slowfood, l’arte dello scrivere e del mangiare bene

di Adelaide Guerisoli

 

 

– Il successo nasce dalla capacità di saper conciliare passione e lavoro, e Slowfood è il prodotto della fusione tra l’amore per il patrimonio gastronomico italiano e mondiale e la necessità di trovare e raccontare storie.
Intervistiamo Camilla Micheletti, una giovane giornalista che collabora con Slowfood, che ci spiega come funziona l’associazione e come ha iniziato il suo percorso lavorativo.


Come è nata l’idea di creare Slowfood?

Il fondatore è Carlo Petrini, un personaggio eccezionale che ha la capacità di emozionare i pubblici più vasti grazie all’uso delle parole, che ha conseguito numerosi premi e che è stato inserito tra le cento persone che cambieranno il mondo.
L’associazione è nata trent’anni fa, quando, durante una cena tra amici, Carlo Petrini si è reso conto che l’Italia aveva bisogno di spostare l’attenzione anche sul cibo, poiché anch’esso, come la politica e l’ambiente, ha un ruolo importante nella vita di ogni individuo.
Tutto è nato a Montalcino, come un circolo dove si mangiava e beveva bene, ma durante il corso degli anni ha trovato sede a Bra, in provincia di Cuneo,e adesso conta più di centosessanta centri in tutto il mondo.

Quali sono i suoi scopi principali?

Lo slogan di Slowfood è “Buono, pulito, giusto”.
Il progetto di cui si sta occupando correntemente è quello di salvaguardare la biodiversità, ovvero i vegetali che stanno scomparendo dalle nostre terre; purtroppo le industrie basate sulla monocoltura stanno procurando la rovina delle terre e dei piccoli produttori.
Inoltre sottolinea il valore del rapporto qualità prezzo, e cerca di far comprendere l’importanza delle persone che si occupano dei passaggi che precedono la vendita di un prodotto coltivato con cura, che è o può diventare in via d’estinzione.
Lo scopo principale di slowfood è quello di riuscire ad arrivare dove i media tradizionali non riescono, e per farlo si basa sulle persone e sulle loro storie, sfruttando la comunicazione.

Parlando invece del tuo impiego, come sei venuta a conoscenza di Slowfood? Che tipo di formazione hai avuto?

Sono cresciuta a Castagneto Carducci, una delle zone della Toscana in cui si producono i vini più famosi in Italia e in tutto il mondo, per questo mi sento molto legata al settore dell’enogastronomia.
Inizialmente però avevo intenzione di scrivere articoli riguardanti gli esteri, ma mi sono poi accorta che la cosa che mi piace di più è raccontare storie.
Ho fatto la scuola di giornalismo a Torino, e lì ho incontrato un giornalista che lavora per Repubblica e L’Espresso. Mi ha parlato di Slowfood e mi ha consigliato di fare lo stage per vedere come mi sarei trovata. Adesso lavoro come redattrice per l’associazione.
I miei interessi coinvolgono anche l’arte, e per questo spero in futuro di occuparmi anche della relazione tra arte e cibo.

È un’occupazione che consiglieresti a chi ha i tuoi stessi interessi?

Purtroppo il giornalismo italiano e quello internazionale sono in crisi, ma l’editoria enogastronomica è uno dei settori che continua a svilupparsi.
Gli italiani sono sempre stati famosi per passare le loro giornate a parlare di cibo, e questo modo di vivere sta diventando globale.
Per riuscire bene in questo lavoro bisogna sempre avere grande professionalità e buone basi, poiché ormai chiunque, armato di internet, può improvvisarsi giornalista.
Il mio percorso è nato dalla scrittura ed ha raggiunto poi l’arte culinaria, ma grazie alla nascita di università come quella di Slowfood e di Gambero Rosso si può entrare in una redazione dopo aver conseguito una laurea in scienze della gastronomia.

 

 

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