Padova/Don Luca Favarin dice no al presepe: la religione va alla deriva. O forse no?

di Alberto Zali

– Padova: a pochi giorni dal caso “canzoncina senza Gesù”, don Luca Favarin lancia una provocazione a tutti i cultori delle convenzioni e dell’esteriorità. “Questo presepio non s’ha da fare”, volendo citare impropriamente i Promessi Sposi. Sono infatti i preti “per comodità”, i vasi di ceramica in mezzo ai vasi di ferro, che critica Favarin. Perché spendere migliaia di euro in un presepe raffigurante i poveri, quando poi i veri poveri sono lasciati ogni giorno morire di fame?

Tra identità nazionale…
La provocazione di Favarin non è stata però ben accolta, e forse addirittura mal interpretata. Arrivano immediate le critiche da parte della Lega che vi scorge – o vi vuole scorgere – un tentativo di indebolire la Chiesa dal proprio interno. Il nostro filosofo del web Diego Fusaro, che in questi mesi ha fatto molto parlare di sé per la sua strenua lotta contro il turbocapitalismo globalizzante – o forse per l’utilizzo di termini quali appunto “turbocapitalismo globalizzante”, non avrebbe indugi a definire le parole di Faverin come l’ennesimo tentativo delle élite sovranazionali di annichilire le identità nazionali.
…e apertura all’Altro.
Ed, in effetti, l’identità del singolo e delle singole nazioni deve essere preservata, poiché è la diversità l’elemento imprescindibile per un incontro arricchente con l’Altro. “No” quindi a togliere il presepe per rispetto degli stranieri. Gadamer, ad oggi uno dei più importanti filosofi della comunicazione, sosteneva che l’incontro con l’Altro potesse avvenire solo a partire da un’esperienza condivisa: due esistenze, completamente diverse, che si incontrano a metà strada senza rinunciare però ad essere sé stessi (pena, una dialettica signore-servo in cui l’uno diventa dominante sull’altro generando un clima di conflitto).
Vogliamo far politica o aiutare i poveri?
Tutto molto vero. Tutto molto interessante. Ma non è che stiamo travisando le parole di Favarin? Il popolo del web parla di “prete politicizzato”. Forse sì, se aiutare chi ne ha più bisogno o comunque spostare l’attenzione sui poveri è fare politica. Forse sì, se leggere il vangelo e metterne in pratica l’insegnamento è fare politica. Ma questa è – dovrebbe essere – la prima preoccupazione della Chiesa. Ma il populismo si muove attraverso slogan, attraverso l’individuazione di un nemico comune per trovare appoggio da posizioni altrimenti inconciliabili. Allora fingiamo che il nemico sia chi vuole distruggere la nostra tradizione. Fingiamo che il nemico sia l’Altro. È più comodo. È più rassicurante. Con che coraggio andremmo a comprare i nostri capi firmati, consci di essere noi stessi il nemico. Consci che migliaia di persone vivono in una condizione deprecabile, dimenticati, come scarti di vita. Sì, è più facile far politica e dire che a dare attenzione ai poveri si mette in gioco la nostra cultura e tradizione.