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L'EDITORIALE

Quando tutto sembra vuoto e grigio

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di Claudia Demontis

 

– Oggigiorno i numerosi progressi scientifici hanno garantito notevoli successi in ogni campo e di sfondare i limiti dell’immaginabile. Eppure quando l’uomo deve affrontare un proprio malessere, nessun farmaco o invenzione tecnologica puó riordinare i suoi pezzi. Che cosa fare quando le giornate appaiono grigie nonostante fuori ci sia il Sole? Come possiamo reagire se si aggrava su di noi una sensazione di vuoto, di amarezza e ci sentiamo incapaci di portare a termine qualsiasi compito?

 

MA QUANTO PESA VIVERE?

Quante volte ci siamo trovati con le spalle al muro col petto pesante, schiacciati dal peso della vita? Quante volte è successo che non riuscissimo a vedere nient’altro che quella nebbia folta di preoccupazioni davanti ai nostri occhi?

Non siamo mai stati bravi con noi stessi: nessuno tra di noi è mai riuscito a risolvere i propri problemi da sé.
Ci sono giorni in cui anche l’azione più basilare e necessaria appare troppo impegnativa, troppo complicata o faticosa per essere portata a termine; in quei momenti ci importa poco se torniamo a casa e troviamo la nostra famiglia ad aspettarci o abbiamo un piatto caldo pronto in tavola. Tutto risulta molto più freddo, insipido e finito. Ci lasciamo trasportare da ogni nostra percezione negativa: siamo coinvolti dal senso di solitudine, di abbandono e ci sentiamo rigettati e scartati dal mondo e da coloro che ci amano.

In certe giornate siamo inclini all’autocommiserazione e alla reclusione; invece che raccoglierci e rivendicare noi stessi, tendiamo a respingere gli amici e a trascurare i nostri bisogni ed i nostri doveri, mentre il tempo passa e noi non ce ne accorgiamo neppure. Stiamo sdraiati sul divano e sul letto pensando che l’isolamento possa allievare la sensazione di angoscia e quell’ansia che proviamo nel dover trovare il prima possibile una maniera per tornare alla normalità. Perché noi siamo coscienti del fatto che al di là delle nostre insicurezze e delle nostre sofferenze c’è un mondo che ci aspetta, ma spesso siamo proprio noi che non ci sentiamo in grado di farne parte: ma volte persino il cielo grigio ci fa credere che non ci sia il sole.

 

UNA PAUSA PER NOI STESSI?

I momenti che trascendono la quotidianità della nostra vita spesso sono anche boccate di ossigeno, ma alla fine dobbiamo tornare alla nostra routine. Possiamo definire il momento corrispondente alla riconquista delle nostre abitudini come un periodo di convalescenza.

Torniamo alla quotidianità passo dopo passo, ci rendiamo conto che non siamo poi così soli e che, anche mentre ci piangevamo addosso eravamo circondati da persone che ci donavano loro stessi. Uscire da un brutto periodo o da una malattia non è mai stato facile per nessuno, ma è necessario mantenere anche un minimo contatto col mondo e non sottovalutare chi ci sta intorno; riprendiamo la nostra vita recuperando l’uso del nostro corpo e delle nostre emozioni, una volta atrofizzate dall’apatia.

Non dobbiamo dimenticare mai che, nonostante tutto, al mondo ci sarà sempre qualcuno pronto a reggerci, a coprirci le spalle, ma a volte c’è bisogno di dover mettere da parte il proprio orgoglio e di avanzare un’umile richiesta d’aiuto. Ci sarà una persona disposta ad aiutarci, ad ascoltarci, a spronarci e a farci reagire che riuscirà a scuoterci da quella sensazione d’incapacità e d’intorpidimento.

Si tratta di una vera e propria ribellione contro noi stessi, una rivolta contro le nostre paure e le inquietudini che ci opprimono quotidianamente. Una scelta da prendere che ci incoraggi nel proseguire la nostra vita senza rammaricarci troppo: una scelta tra rialzarci e tornare a vivere o rimanere nella medesima situazione di stallo sempre più soli.

 

TORNARE A VIVERE?

Col tempo ci si dimentica sempre delle delusioni amorose, dei torti subiti, dei malanni affrontati: dimentichiamo ogni volta le brutte esperienze, solo in questa maniera è possibile provare tanto amore e nostalgia per i ricordi. Così come dopo ogni crisi segue un florido periodo economico, dopo una brutta esperienza c’è sempre un riscatto; potrà sembrarci strano e addirittura incomprensibile ma è proprio vero, fare appello a brutti momenti risulta molto più difficile che ricordare qualcosa di bello. Perciò, per quanto possa apparire assurdo o impossibile, torneremo tutti a sorridere un’altra volta con l’unica differenza che questa volta torneremo ancora più forti, più vissuti, più tosti di prima.

Magari, riusciremo persino ad apprezzare di più le persone che ci amano e le bellezze di questo mondo; perché ora, ogni volta prima di uscire per andare a scuola, per andare con gli amici o per entrare in campo, guarderemo le punte delle nostre scarpe con soddisfazione e noteremo le stringhe allacciate: lacci che eravamo convinti di non poter più allacciare. Essi non sono altro che quel ponte tra noi e la nostra vita, che va a congiungere le sponde di quella gola profonda e oscura che siamo riusciti a saltare e sorpassare per andare avanti ancora un’altra volta.

 

 

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L'EDITORIALE

IRAN/Quando il problema è di chi comanda

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Che cosa è un cittadino? Usando la definizione di Treccani: “Chi appartiene a uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”. E lo stato non è forse la quintessenza della volontà dei cittadini che lo compongono?

La repressione

Al termine di un 2022 di continue proteste, ci chiediamo se le donne, sempre più soffocate in Iran, si possano definire cittadine di uno stato che non viene loro incontro, e che certamente non le rappresenta.

Perché è indubbiamente semplice chiudere un occhio sull’insignificante questione dei diritti umani, ma irrazionale non aspettarsi che il popolo da te rappresentato non vada d’amore e d’accordo con questa decisione.

Le risposte violente delle autorità, condite da sparatorie sulla folla, interrogatori duri (leggi: tortura) e molti altri trattamenti di favore, fanno presumere che il presidente, Ebrahim Raisi, non abbia davvero tutto sotto controllo, come invece ha fatto intendere nelle sue ultime dichiarazioni.

Il ruolo dello sport

Come già abbiamo potuto osservare in molti scenari di questo stampo, lo sport si fa spesso carico delle voci più coraggiose, che mettono in gioco il percorso di una vita, le fatiche degli allenamenti e la possibilità di partecipare a competizioni importanti, nella speranza di un futuro migliore.

Tutte le donne che dall’Iran fanno sentire la protesta attraverso lo sport vanno riconosciute, ma sentiamo particolarmente vicine la 22enne Mahsa Amini, fermata a Teheran e arrestata perché non indossava correttamente l’hijab, morta tre giorni dopo, e Elnaz Rekabi, la scalatrice vittima di numerose minacce, la cui casa è stata persino demolita (la CNN su Twitter).

“Ci moltiplichiamo”

Queste le parole di speranza che hanno iniziato a circolare su Twitter, da quando Sara Khadim ha partecipato, senza l’hijab, al campionato del mondo di scacchi in Kazakistan. La giovane donna, di soli 25 anni, ha dimostrato una strenua resistenza nei confronti delle minacce ricevute, e il suo contributo alla causa è senz’altro molto discusso.

A farsi sentire, però, non è solo qualche sportivo o alcuni personaggi di rilievo, ma da circa tre mesi continuano le proteste da parte di un popolo piegato dalla tirannia: queste di recente hanno assunto anche i primi colori della violenza (molotov lanciate in edifici religiosi), preannunciando un non così lontano botta e risposta tra polizia e manifestanti.

Fino a che punto si considerano accettabili le azioni di un popolo delegittimato? Ribaltare il potere può davvero portare al miglioramento della condizione delle donne in Iran?

 

 

 

 

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L'EDITORIALE

Il futuro di un ritorno al passato

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La questione ha origine in Russia, paese di cui attualmente si parla parecchio, in questo caso per un motivo differente ma in un qualche modo pertinente: la Duma, la camera bassa del parlamento, ha approvato una legge contro la “propaganda gay”.

Quest’ultima impedirebbe di discutere della cultura lgbt+ e gender non più soltanto ai minorenni, com’era stato dal 2013 a oggi, ma anche agli adulti: infatti anche solo parlarne incentiverebbe a impostazioni sessuali esenti dalla tradizione.

Sarebbe dunque il caso di limitarsi a un’informazione che sostenga invece il concetto di famiglia tradizionale (definizione che include una critica nei confronti di coloro non vogliono avere figli) proprio durante il coinvolgimento in una guerra ibrida e allontanarsi ulteriormente dall’occidente e dal progressismo?

Infatti per il paese calato in una situazione del genere, diventa insufficiente proteggere soltanto i figli, bisogna estendere il provvedimento a tutta la società, nonostante si sottintenda che i suoi legittimi componenti debbano rispettare il prototipo cishet, in nome dell’eteronormatività.

Ognuna delle motivazioni sopra elencate sarebbe valida se non si parlasse di diritti umani e civili, della limitazione della libertà di una parte della comunità in un modo e di questa nella sua totalità in un altro.

Così le violenze a danno di persone lgbt+ sono diffusissime all’interno del paese, molte preferiscono non denunciare per paura di ritorsioni.

Sorge quindi spontaneo chiedersi quali potrebbero essere le prossime evoluzioni di questa situazione: le norme previste subiranno ulteriori restrizioni? o si preferirà lasciar andare la presa, così da contribuire alla diffusione del benessere?

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L'EDITORIALE

L’ideologia non è una strategia

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E’ iniziato tutto poche settimane fa, intorno al caso della nave Ocean Viking: un pasticcio gestito malissimo con una nave carica di più di 230 persone in fuga dall’Africa che non solo non trova rifugio e assistenza presso un porto italiano, ma è costretta a spingersi verso nord, verso Tolone, per ricevere ristoro.

 

VENTI DI CRISI

Fin qui la cosa sarebbe umanitariamente grave, ma politicamente non gravissima: è il governo della destra, insediatosi in Italia non appena un mese fa, che sui migranti decide di dare un segnale forte alla comunità internazionale e che – a voler essere benevoli – si potrebbe declinare con l’antico motto “chi sbarca in Italia, sbarca in Europa”. Il pugno duro, pertanto, potrebbe rappresentare una richiesta forte ai paesi dell’Unione: o ci aiutate o non capite che cosa sta succedendo.

 

L’ERRORE ITALIANO

Il punto è che la cosa andrebbe concordata. Concordata con i nostri partner e costruita nell’ambito di una strategia politica capace di portare al tavolo europeo un problema di tutti. Sembrava averlo capito Meloni, sembrava che tra lei e Macron le cose potessero funzionare, ma qualcuno al ministero non ha aspettato che l’accordo si chiudesse e ha pubblicamente invitato la nave “ad andare in Francia”.

 

LA REAZIONE FRANCESE

Da qui la stizza di un governo d’oltralpe che tutti i giorni deve fronteggiare gli attacchi xenofobi della Le Pen in un parlamento ormai ostile al Presidente. Da qui un lungo gelo scalfito solo dalla telefonata tra Macron e Mattarella, ma che non si è ancora tradotto in una riconciliazione.

 

CONSEGUENZE SUL GAS E SULLE PARTITE DECISIVE

Meloni perde così un alleato importante, un alleato decisivo nella guerra del gas che il nord Europa vorrebbe non combattere perché troppo beneficiario dei risvolti positivi che la congiuntura attuale permette in suo favore. Per fare il pugno duro sull’ideologia, Meloni si ritrova senza strategia. Come se le battaglie, in fondo, si vincessero con le posizioni di principio.

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