Connect with us

L'EDITORIALE

Senza la donna non c’è Europa

Pubblicato

il

di Rachele Alvarado

– Mi hanno sottratto tutto, anche il mio corpo – così Beatriz, 16 anni, cerca di dare un senso a ciò che senso non può avere. Nelle favelas della periferia di Rio de Janeiro, infatti, Beatriz è stata drogata e stuprata per ore da 33 uomini. E, dopo, ha anche dovuto subire la vergogna di vedere pubblicati su Twitter le foto e i filmati delle violenze subite –
immagini che, prima di venire rimosse dalle autorità, hanno raggiunto uno sconvolgente numero di like e apprezzamenti. Secondo le indagini, l’inaudita ferocia sarebbe stata una “punizione” da parte dell’ex fidanzato; la loro storia era ormai finita e lei aveva una nuova relazione.

Il mondo intero inorridisce davanti a tanta brutalità; e a noi, cittadini europei, viene facile cullarci nell’illusoria certezza di vivere dove queste cose non possono accadere, dove la misoginia e la violenza sono sconfitte ed è tempo per una pacifica convivenza. I dati, però, dicono l’opposto. Molti paesi europei – e tra loro proprio quelli dell’estremo nord, che si vuole culla della civiltà e della democrazia – si collocano nelle prime posizioni per occorrenze annuali di abusi sessuali. E se la situazione appare migliore nel sud Europa, probabilmente non è altro che diffusa omertà, soprattutto quando si tratta di violenze domestiche.
Questa è, ancora, la situazione nel 2016: sotto le notizie di stupro c’è chi commenta che la vittima se l’è cercata, che d’altra parte andava in giro vestita in quel modo. La responsabilità, e lo stigma sociale, sembra essere di chi ha subito la violenza, e non del carnefice – anche e soprattutto quando le vittime sono uomini. Viene da chiedersi come ciò sia possibile.
Le cause sono molteplici ed interconnesse; un punto di partenza, però, sono sicuramente gli stereotipi di genere. Ci piace pensare che il sessismo, comunque lo si intenda, sia stato superato – una vestigia di un periodo ormai concluso, un po’ come quel maglione con le toppe sui gomiti nell’armadio di nostro padre. La verità, tuttavia, è che certi pregiudizi sono rimasti vivi e vegeti; sono leggermente mutati, è cambiato il taglio del colletto, ma la sostanza e le sue basi, le toppe, sono rimaste le stesse. Come certe mode, il sessismo rimane e si infiltra subdolamente nella modernità – è solo mille volte più pericoloso.
Alcuni stereotipi sembrano inoffensivi, altri sono così radicati nella nostra cultura che non abbiamo ancora imparato a farci caso. I ragazzi sono ragazzi, anche quando complici di scherzi crudeli e irrispettosi, e se un bambino spintona una compagna a scuola è solo perché, in fondo, lei gli piace. D’altra parte, piangere sarebbe da femmine – molto meglio qualche pugno e un po’ di sano confronto fisico per essere accettati nel gruppo. Le ragazze hanno bisogno di un uomo nella loro vita, altrimenti non ce la faranno: sono troppo emotive, specie in certi periodi del mese. È bene che si vestano ammodo, o tutti penseranno che siano donnette facili, senza valore. Intanto, però, alla TV la donna giovane pulisce la cucina e quella vecchia combatte una battaglia persa contro le rughe, e la piacente cameriera Giovanna la aiuta. E Selvaggia Lucarelli, denunciando il sessismo dello spot Saratoga in un articolo dell’anno scorso per Il Fatto Quotidiano, non manca di introdurre il discorso su quanto la moglie del presidente del consiglio debba darsi una sistemata ai capelli. L’apparenza sembra l’unico pregio delle donne, l’unico modo che hanno per essere considerate. Brava, Giovanna.
Non dimentichiamoci, poi, che l’educazione all’affettività ed alla sessualità è una materia assolutamente trascurata – specialmente in Italia; i dati sull’aumento delle malattie sessualmente trasmissibili sono preoccupanti, e ancora peggio sono quelli sulla crescita delle gravidanze indesiderate tra gli adolescenti.
Il problema non è di facile soluzione, ma una strada va cercata e, dove ancora non c’è, va creata.
Il sessismo è proprio come quel vecchio maglione dismesso, solo – dicevamo – molto più pericoloso. Per Beatriz, è stato 33 volte più pericoloso.

Continua a leggere
Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

L'EDITORIALE

ISTRUZIONE/A scuola si muore

Pubblicato

il

1) Ti sparano

L’istruzione è un diritto. In una società moderna come la nostra non ci dovrebbe essere ombra di dubbio. Forse un diritto potrebbe essere anche quello di sentirsi al sicuro nelle scuole, quanto basta da non essere freddati in corridoio.

In un istituto del Tennessee, USA, ieri hanno ammazzato tre adulti e tre bambini. Colpevoli due fucili d’assalto e una pistola, di certo non il materiale per un colloquio con la maestra.

È una storia già sentita, i nomi degli assassini si ricordano poco, quelli delle vittime anche meno. Ogni volta che sparano a scuola questioniamo (legittimamente) chi ha premuto il grilletto, ma poco importa ai più il fatto che parte delle armi sono state acquistate legalmente. Qualcuno ha permesso una facile distribuzione delle armi da fuoco.

Non per minimizzare le vite di coloro che a scuola lavoravano, ma sono morti dei bambini di nove anni, che a scuola andavano obbligati. Da qualche parte ci sono dei genitori che hanno mandato a morte i propri figli, aiutandoli a fare lo zainetto la mattina.

2) Ti uccidi

Non dobbiamo cercare negli Stati Uniti gli studenti che si sono tolti la vita a scuola, ce ne sono molti anche in Italia. In questo caso risulta più difficile puntare il dito contro il reo, dato che l’azione più estrema di tutte è il frutto di molti fattori, che conosce solo chi decide di compierla.

Però ci si può chiedere: perchè a scuola?

Magari la goccia che fa traboccare il vaso è un attacco d’ansia, magari l’obiettivo è mandare un messaggio. Nella seconda ipotesi, la più probabile a mio avviso, si intravede il ruolo significativo ricoperto dal luogo, dove si insegna, si impara, si cresce. Si lascia il segno, anche. Magari il silenzioso e inascoltato grido d’aiuto della 19enne che due mesi fa si è suicidata allo IULM di Milano, nei bagni, sarà ricordato.

Continua a leggere

L'EDITORIALE

IRAN/Quando il problema è di chi comanda

Pubblicato

il

Che cosa è un cittadino? Usando la definizione di Treccani: “Chi appartiene a uno stato (cioè a una comunità politica, a una nazione), e per tale sua condizione è soggetto a particolari doveri e gode di determinati diritti”. E lo stato non è forse la quintessenza della volontà dei cittadini che lo compongono?

La repressione

Al termine di un 2022 di continue proteste, ci chiediamo se le donne, sempre più soffocate in Iran, si possano definire cittadine di uno stato che non viene loro incontro, e che certamente non le rappresenta.

Perché è indubbiamente semplice chiudere un occhio sull’insignificante questione dei diritti umani, ma irrazionale non aspettarsi che il popolo da te rappresentato non vada d’amore e d’accordo con questa decisione.

Le risposte violente delle autorità, condite da sparatorie sulla folla, interrogatori duri (leggi: tortura) e molti altri trattamenti di favore, fanno presumere che il presidente, Ebrahim Raisi, non abbia davvero tutto sotto controllo, come invece ha fatto intendere nelle sue ultime dichiarazioni.

Il ruolo dello sport

Come già abbiamo potuto osservare in molti scenari di questo stampo, lo sport si fa spesso carico delle voci più coraggiose, che mettono in gioco il percorso di una vita, le fatiche degli allenamenti e la possibilità di partecipare a competizioni importanti, nella speranza di un futuro migliore.

Tutte le donne che dall’Iran fanno sentire la protesta attraverso lo sport vanno riconosciute, ma sentiamo particolarmente vicine la 22enne Mahsa Amini, fermata a Teheran e arrestata perché non indossava correttamente l’hijab, morta tre giorni dopo, e Elnaz Rekabi, la scalatrice vittima di numerose minacce, la cui casa è stata persino demolita (la CNN su Twitter).

“Ci moltiplichiamo”

Queste le parole di speranza che hanno iniziato a circolare su Twitter, da quando Sara Khadim ha partecipato, senza l’hijab, al campionato del mondo di scacchi in Kazakistan. La giovane donna, di soli 25 anni, ha dimostrato una strenua resistenza nei confronti delle minacce ricevute, e il suo contributo alla causa è senz’altro molto discusso.

A farsi sentire, però, non è solo qualche sportivo o alcuni personaggi di rilievo, ma da circa tre mesi continuano le proteste da parte di un popolo piegato dalla tirannia: queste di recente hanno assunto anche i primi colori della violenza (molotov lanciate in edifici religiosi), preannunciando un non così lontano botta e risposta tra polizia e manifestanti.

Fino a che punto si considerano accettabili le azioni di un popolo delegittimato? Ribaltare il potere può davvero portare al miglioramento della condizione delle donne in Iran?

 

 

 

 

Continua a leggere

L'EDITORIALE

Il futuro di un ritorno al passato

Pubblicato

il

La questione ha origine in Russia, paese di cui attualmente si parla parecchio, in questo caso per un motivo differente ma in un qualche modo pertinente: la Duma, la camera bassa del parlamento, ha approvato una legge contro la “propaganda gay”.

Quest’ultima impedirebbe di discutere della cultura lgbt+ e gender non più soltanto ai minorenni, com’era stato dal 2013 a oggi, ma anche agli adulti: infatti anche solo parlarne incentiverebbe a impostazioni sessuali esenti dalla tradizione.

Sarebbe dunque il caso di limitarsi a un’informazione che sostenga invece il concetto di famiglia tradizionale (definizione che include una critica nei confronti di coloro non vogliono avere figli) proprio durante il coinvolgimento in una guerra ibrida e allontanarsi ulteriormente dall’occidente e dal progressismo?

Infatti per il paese calato in una situazione del genere, diventa insufficiente proteggere soltanto i figli, bisogna estendere il provvedimento a tutta la società, nonostante si sottintenda che i suoi legittimi componenti debbano rispettare il prototipo cishet, in nome dell’eteronormatività.

Ognuna delle motivazioni sopra elencate sarebbe valida se non si parlasse di diritti umani e civili, della limitazione della libertà di una parte della comunità in un modo e di questa nella sua totalità in un altro.

Così le violenze a danno di persone lgbt+ sono diffusissime all’interno del paese, molte preferiscono non denunciare per paura di ritorsioni.

Sorge quindi spontaneo chiedersi quali potrebbero essere le prossime evoluzioni di questa situazione: le norme previste subiranno ulteriori restrizioni? o si preferirà lasciar andare la presa, così da contribuire alla diffusione del benessere?

Continua a leggere

Trending