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ATTUALITA'

L’esempio della Svezia sfida l’Europa

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di Adriano Torrero

– C’e’ un caso nella storia in cui un Paese, di fronte ad una grande crisi economica e politica, e’ riuscito a risollevarsi unicamente con le proprie forze, grazie ad un sistema economico imperniato sul dialogo e sulla fiducia reciproca fra datori di lavoro, lavoratori e governo, fazioni che nella storia si sono rivelate essere nemiche irriducibili: stiamo parlando della Svezia.

I NUMERI
La Svezia, anch’essa colpita dalla grande crisi finanziaria del 2008, ha gia’ mostrato segni di ripresa l’anno successivo, vantando dei tassi di crescita attorno al 4% annuo, numeri impressionanti paragonati alla (de)crescita dell’Italia. Il Paese scandinavo e’ inoltre la 6^ economia piu’ solida al mondo, il 2°  nel campo dell’innovazione dopo la Corea del Sud e con la qualità della vita fra le migliori d’Europa: attualmente lo stipendio medio svedese si aggira attorno ai 50.000 euro annui, mentre il reddito pro capite nostrano si colloca attorno ai 33.000 euro.

COME HANNO FATTO GLI SVEDESI A GARANTIRE UN TALE BENESSERE?
Ciò e’ dovuto alla grande considerazione che hanno delle associazioni sindacali il governo e le aziende stesse; quest’utime, prima di prendere una qualsiasi decisione riguardo un qualunque aspetto della loro attivita’, si riuniscono con i rappresentanti dei sindacati  (che fanno parte del consiglio di amministrazione) e decidono insieme il proprio futuro venendosi incontro e cercando di soddisfare entrambe le parti.Comunque e’ erroneo ritenere che i sindacati, per mezzo della propria influenza, cerchino di aumentare il salario dei propri iscritti “prosciugando” i  datori di lavoro: i sindacalisti sono tutti d’accordo nel ritenere  impensabile intralciare il cammino delle aziende sulla strada della modernizzazione, poiche’ cio’ significherebbe meno competitivita’ in ambito internazionale e contro la globalizzazione, anche nei casi in cui cio’ potrebbe costare il lavoro ad alcuni dipendenti. E’ proprio qui che emerge la differenza culturale fra gli scandinavi e gli italiani, i primi improntati al collaborazionismo fra le parti in causa, i secondo al battibecco inconcludente.

IL SISTEMA DEI CONTRATTI COLLETTIVI NAZIONALI DEL LAVORO
Nei casi in cui dovessero esserci dei licenziamenti, i datori di lavoro si riuniscono con i sindacalisti cercando una soluzione che possa appagare entrambe le parti, e nei casi piu’ compromessi si risolvono con una buonuscita di parecchi mesi di stipendio ed una completa copertura dei costi di corsi di formazione (sempre da parte dei datori di lavoro) per gli ex-dipendenti per permettere loro di poter essere assunti in altri ambiti lavorativi.
Un esempio lampante di come la collaborazione fra aziende e sindacati possa essere  fruttuosa e’ l’accordo fra quest’ultimi che ha permesso l’uscita della Svezia dalla crisi del 2008: in questa situazione difficile tutti i lavoratori hanno accettato una diminuzione dello stipendio dello 0.8%, consentendo alle imprese di ritornare competitive in poco tempo, le quali, dopo essersi completamente riprese nel 2010, hanno “restituito” ai propri dipendenti ciò che e’ stato “prestato” loro per superare il periodo di difficolta’.Questo sistema economico ha permesso a tutte le parti di guadagnare: le aziende risultano molto competitive in quanto i loro prodotti, di qualità superiore, sono venduti a prezzi più alti,  i lavoratori vedono il loro salario crescere ogni anno ed il Paese può intervenire personalmente nelle situazioni più critiche  con minori difficoltà.

UN SISTEMA ECONOMICO IN GRADO DI ELIMINARE LE DISEGUAGLIANZE SOCIALI
Il Presidente del LO, il sindacato delle cosiddette “tute blu”, il terzo in Svezia per numero di iscritti dopo  il TCO e la SACO, , ha parlato di come questa economia ha giovato anche in ambito sociale,  mitigando in maniera impressionante le diseguaglianze in ambito economico e dimostrando anche come nelle nazioni che non utilizzano questo sistema  la crema della crescita economica sia tutta finita nelle tasche di pochi, aumentando la forbice fra poveri e ricchi (basti pensare che in Italia il 20% della popolazione possiede il 70% della ricchezza).

COME COMBATTERE LA GLOBALIZZAZIONE?
La Svezia ha dovuto fare anche i conti con la globalizzazione, che ha costretto in molti casi le aziende a delocalizzare i propri stabilimenti. Un esempio e’ Boras, capitale svedese nel settore tessile, che ha visto diminuire negli anni ’70-’80 i posti di lavoro nelle proprie fabbriche da 46.000 a 27.000 circa, diventando inoltre la  citta’ con il maggior calo demografico del Paese.  La rinascita e’ stata resa possibile da investimenti sia statali che privati nei campi del design, della ricerca e della tecnologia, in quanto, sostengono in Svezia, non e’ diminuendo gli stipendi dei lavoratori, cercando di adeguarli a quelli del 3° mondo, ma aumentando la qualita’ dei prodotti che si e’ riusciti a superare quel periodo difficile, analogo per molti versi al nostro. Boras e’ adesso tornata ad essere una città prospera ma in modo diverso: non si produce solo, come in passato, ma si investe sull’istruzione, una parola che sottintende i termini “qualità'” e “innovazione”.

VALE LA PENA DI TENTARE UN PROGETTO SIMILE ANCHE IN ITALIA?
In definitiva, il sistema dei contratti collettivi nazionali si e’ rivelato vincente, rilanciando le aziende locali (con un occhio puntato sull’innovazione), gli stipendi e quindi i consumi, garantendo inoltre un welfare tra i migliori al mondo.
Ovviamente i confronti fra Paesi devono essere fatti con estrema attnzione, in quanto, ad esempio, il nostro debito pubblico e’ sicuramente diverso da quello svedese, ma e’ importante trasmettere come un’economia basata sulla collaborazione sia piu’ forte di una basata sulla sopraffazione.
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POLITICA E ALIMENTAZIONE/La guerra agli hamburger di soia

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I prodotti a base vegetale stanno riempiendo sempre di più gli scaffali dei supermercati italiani.

Oggi è possibile sostituire i tradizionali prodotti a base di carne con hamburger di soia, salsicce di seitan o polpette vegetali. Il nome “hamburger di soia”, per esempio, può risultare paradossale, ma non in un mondo dove il futuro della carne è vegetale.

9 italiani su 10 sono favorevoli all’utilizzo di termini come questo, che rimandano inevitabilmente al mondo della carne con lo scopo di rendere il consumatore più consapevole del prodotto e promuovono scelte alimentari più salutari e sostenibili. È indubbio che si tratti di marketing, ma è davvero un tema su cui dover discutere?

Per alcuni deputati della Camera, sì.

Una proposta di legge che vuole vietare l’uso di nomi riconducibili alla carne per i prodotti vegetali è stata infatti presentata nella Commissione Agricoltura della Camera. L’obiettivo di questa legge è quello di difendere gli allevamenti e la produzione di carne italiana, che sarebbero svantaggiati dalla concorrenza di scelte alternative. Prodotti come la “bresaola di seitan” o la “bistecca di tofu” potrebbero, secondo i promotori della legge, indurre chi compra a pensare erroneamente che questi alimenti siano esattamente identici alla carne a livello nutrizionale.

Secondo l’organizzazione per i diritti animali “Essere Animali”, l’argomento della legge è fuorviante, perché ci sono differenze nutrizionali anche tra prodotti a base di carni diverse con lo stesso nome. I prodotti che usano questo tipo di termini, inoltre, avvicinano le persone a un’alimentazione più veg, una scelta migliore non solo per la salute ma anche per l’ambiente.

La proposta di legge, infatti, non considera i vantaggi a livello di sostenibilità ambientale che offre l’alimentazione vegetale: un report della Commissione Europea ha dimostrato che il settore zootecnico (una parte del settore primario che consiste nell’allevamento, nell’addomesticamento e nello sfruttamento di animali a fini produttivi) è responsabile per l’81- 86% delle emissioni totali di gas serra nell’agricoltura.

Per questi motivi Essere Animali ha lanciato una petizione per chiedere al Governo di impegnarsi a bloccare la proposta.

 

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MALASANITÀ/Il dramma del neonato morto al Pertini

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L’otto gennaio di quest’anno, al ospedale Pertini di Roma un neonato è morto soffocato quando la madre che lo stava allattando si addormenta.

Successivamente la procura ha aperto un fascicolo: “omicidio colposo”.

Intanto però la notizia si diffonde, e il padre del neonato racconta al Messaggero di come la donna fosse sfinita e priva di energie dopo ben 17 ore di travaglio.

La moglie aveva più volte chiesto ai responsabili del reparto di portare il neonato al nido del ospedale per poter riposare, anche solo per qualche ora.

Ma il permesso le era sempre stato negato.

Nei giorni successivi il fatto ha scatenato un accesso dibattito riguardante le procedure post-parto degli ospedali.

Infatti, negli ospedali solitamente è previsto il cosiddetto “rooming-in”, ovvero il neonato subito dopo il parto, viene tenuto nella stessa stanza della madre anziché in una camera in comune con altri neonati.

A questa pratica però, dovrebbe essere sempre proposta un alternativa cioè la gestione dei neonati da parte del Asilo del ospedale, fino al termine della permanenza.

Questa seconda opportunità non viene sempre tenuta in considerazione, e centinaia di donne nei giorni scorsi hanno raccontato la loro esperienza denunciando che la possibilità di usufruire del nido ospedaliero sia stata loro  negata.

Le domande che ci si pongono in questi casi sono molteplici: Cosa sarebbe accaduto se questa donna avesse potuto riposare per qualche ora? O anche solo sé qualcuno avesse avuto cura si sorvegliarla e assisterla? La pratica di rooming-in vale per qualsiasi situazione? È  davvero la scelta più adeguata?

Il drammatico evento che ha portato  il decesso del neonato di Roma dovrebbe stimolare le coscienze e una azione diretta delle istituzioni per tutelare maggiormente la salute delle donne dopo il parto.

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DALL'EUROPA

MODA/Un italiano al timone di Luis Vuitton

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Pietro Beccari è il nuovo amministratore delegato e presidente di Louis Vuitton. Un italiano, dunque, guiderà la marca francese di lusso più nota al mondo fondata da Bernard Arnault. Beccari succederà a Michael Burke. Mentre alla guida di Dior andrà Delphine Arnault, figlia primogenita dell’imprenditore attualmente “uomo più ricco del mondo” secondo Forbes. Un cambio ai vertici che era nell’aria e attendeva solo la conferma ufficiale. Questo è forse il primo dei molti i cambiamenti che attendono il mondo della moda per questo 2023, nel management come nelle direzioni creative.

Pietro Beccari, parmense classe 1967, ha iniziato il suo percorso professionale nel settore marketing di Benckiser (Italia) e Parmalat (Usa), per poi passare alla direzione generale di Henkel in Germania, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della divisione Haircare.

Nel 2006 è entrato in LVMH in qualità di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione per Louis Vuitton, prima di diventare Presidente e ceo di Fendi nel 2012. Da febbraio 2018 è presidente e ceo di Christian Dior Couture, oltre che membro del comitato esecutivo di LVMH.

“Pietro Beccari”, ha commentato Bernard Arnault, fondatore e CEO di LVMH: “ha svolto un lavoro eccezionale in Christian Dior negli ultimi cinque anni. La sua leadership ha accelerato il fascino e il successo di questa iconica Maison. I valori di eleganza di Monsieur Dior e il suo spirito innovativo hanno ricevuto una nuova intensità, supportata da designer di grande talento. La reinvenzione della storica boutique al 30 di Montaigne è emblematica di questo slancio. Sono certo che Pietro condurrà Louis Vuitton a un nuovo livello di successo e di desiderabilità”.

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