CULTURA/Manet artista della perversione?

E’ una fredda giornata di fine gennaio del 1832. A Parigi, tra le colorate vie del centro, nasce un artista destinato a stravolgere il panorama artistico di tutti i tempi. E’ Edouard Manet, cresciuto nell’agio di una famiglia facoltosa che lo indirizza alla carriera giuridica. Fin da bambino, tuttavia, viene attratto da quel linguaggio universale, le cui parole sono fatte di colori, che con le sue linee può essere più incisiva delle grida: l’arte. Il giovane s’imbarca come marinaio per evitare gli studi di legge, ma l’impiego non durerà molto, quanto basta affinchè la famiglia gli permetta di inseguire la sua grande passione. I suoi viaggi per l’Europa arricchiscono i suoi studi, egli è ispirato da grandi maestri, Giorgione e Tiziano in particolare.

Nel 1863 espone la sua tela “Colazione sull’erba”,  tanto amata quanto discussa, che viene respinta della critica del Salon. Cos’è che la pittura accademica proprio non riesce ad accettare di questo quadro? Inorridisce, senza dubbio, la tecnica pittorica, destinata invece a entusiasmare un gruppo di giovani artisti-ribelli, passati alla storia come impressionisti: da vicino, infatti, appaiono molte macchie che lo spettatore solo allontanandosi riesce a congiungere, ritrovando l’unità della tela. Inoltre viene rimproverato all’artista di non aver saputo utilizzare la prospettiva geometrica e il chiaroscuro, assolutamente necessari per poter produrre un’opera di successo, come classicismo comanda. Ma ciò che disturba maggiormente è la figura femminile nuda che conversa amabilmente con due giovanotti borghesi, rendendo volgare le chiacchere di una colazione come tante agli occhi di una, a quanto pare, pudica giuria.

Il tema della nudità femminile viene ripreso in un’altra celebre opera: “Olympia”. Manet rimprovera alla cultura del suo tempo un’estrema rigidità delle posture, prediligendo pose quotidiane per rendere maggior realismo. La pittura accademica accettava il nudo femminile solo se con qualche rimando mitologico; Olympia, seppur raffigurata con lo stilema della Venere sdraiata, non ha nulla di divino, è una prostituta. La giovane donna è invece uno degli scarti della società, raffigurata con la mano sinistra che copre l’oggetto del suo lavoro, quasi per sottolinearlo. I suoi occhi fissi e fieri sullo spettatore rivelano uno sguardo calcolatore. Emblematico poi è il gatto nero, che si credeva fosse il tramite fra le streghe e il diavolo.

Manet infrange uno dei tabù più forti del suo tempo. La prostituzione era un fenomeno estremamente diffuso, ma taciuto, ritenuto indegno, come la stessa sessualità. Il quadro dunque non riscuote particolare successo. L’artista attira l’amicizia di molti artisti, soprattutto Baudelaire. Effettivamente si può ritrovare una forte analogia tra i due: entrambi rifiutano il ruolo educatore dell’artista, preferendo immergersi e denunciare una cruda realtà, quella vera, alla società borghese, fatta di perbenismo esteriore che nasconde un attaccamento viscerale e morboso ai propri interessi. Ecco che “l’artista maledetto”, alla bohemien, non ha solo il merito di aver sperimentato nuove tecniche pittoriche, essenziali per la nascita dell’impressionismo, ma ha anche descritto, con uno sguardo disincantato, una società nascosta, soffocata, che nell’ ottocento comincerà finalmente a reclamare i suoi diritti. Forse anche oggi servirebbe qualcuno che, con maestria e senza retorica, denunci gli interessi capitalistici della società contemporanea, che come al tempo di Manet, nasconde sotto un perbenismo irritante i propri interessi.

Questo è il potere universale e senza tempo di Manet.