Quelle cose strane che lasciamo a scuola

di Federico Pichetto*

– Le ultime ore di un anno scolastico sono, come le prime, sempre le più interessanti. Non perché siano le più belle o le più utili e nemmeno perché siano in qualche modo più determinanti di altre. Le prime e le ultime ore di un anno scolastico rivelano – almeno per un momento – la verità dell’esperienza che si è fatta o che si sta per fare. Se, infatti, l’inizio della scuola è animato da una strana gratitudine, da una letizia inusuale per il ritrovarsi e il ricominciare a camminare insieme, la fine dell’anno è segnata da un certo senso di nostalgia. Nei caldi giorni di maggio o di inizio giugno tutti pensano, e vogliono, la fine della scuola. Le incombenze burocratiche sempre più pressanti, le attività che incalzano, i voti da recuperare, i moduli da compilare: tutto sembra essere studiato per spegnere e soffocare la passione di essere insegnanti, di essere studenti, di essere comunità. Eppure, dentro tutto questo, ad un certo punto, sul finire delle ultime ore, affiora una strana consapevolezza. Tornano alla mente le tante parole dette, gli errori fatti, le risate, i momenti difficili e gli istanti drammatici: torna alla mente che quello che è passato non è stato solo un anno scolastico, ma è stato – per tutti – un pezzo di vita, una parte della nostra strada. In quell’infinitesimale istante di presa di coscienza affiora in superficie ciò che per tutto l’anno le strutture, le leggi, gli scontri, hanno tenuto nascosto, ossia che la scuola è un rapporto che ti segna, che la scuola è un luogo di rapporti umani. Basta che questa “percezione di vita” faccia capolino dentro di noi che tutte quelle aule, tutti quei volti, tutti quei riti, diventano improvvisamente “cari”, “importanti” e – misteriosamente – inizino a mancarti. Mi mancheranno. Non le sudate carte o le circolari, non le tabelle o “il sistema”, ma le persone, le cose, lo “spirito” che abita dentro la scuola. Davvero quelle scenografie che a qualunque altro essere vivente potrebbero apparire grottesche – si pensi alla disposizione dei banchi nelle aule, alle lavagne, ai bagni fatiscenti – sono la location di qualcosa di misterioso che ci accompagna e che, anche nei momenti più bui – di rabbia e di paura – non ci molla, ma continua ad esserci. Si può anche andare a scuola d’estate, per un corso di recupero, per una riunione, per un esame, ma non è la stessa cosa: niente può ricreare la magia preziosa e unica delle cose e delle persone che vivono, che soffrono e che sperano. Tutti siamo in debito verso quel mondo amato e detestato, verso quelle porte temute e volute, verso quelle finestre sognate o maledette. E tutti siamo destinati a ricordarle, nel bene e nel male, per sempre. Perché è questo che rimarrà quando sarà finito tutto, quando attraverseremo per l’ultima volta la soglia di quell’entrata che ci ha tenuto in ostaggio cinque, dieci, o quarant’anni: la percezione nitida e chiara che la nostra vita è passata da lì e che, comunque la si voglia mettere, quello è stato – per molto tempo – il nostro posto, il posto giusto. Quel posto che, da adesso in poi, cercheremo ostinatamente tra i nostri affetti, tra le nostre battaglie, dentro la nostra estate. Insomma, per dirla con uno slogan, “la scuola è finita, viva la scuola”! Viva il Mistero che la abita e che nessuna riforma riesce a scalfire. Viva gli studenti, viva i bidelli, viva i professori, viva i presidi, viva tutti quelli che rendono possibile questo “miracolo” e che riempiono di nostalgia i nostri giugno e di un imprevedibile speranza i nostri settembre. La speranza che nasce dalla fiducia che tutto quello che abbiamo lasciato in quei corridoi rimanga lì, muto e silenzioso, ad aspettarci. Ad aspettare di rivedere il mio sguardo ed inondare i miei occhi. E’ questo in fin dei conti, dietro tutti i “se” e tutti i “ma”, quello nel nostro cuore ciascuno di noi chiama – semplicemente – scuola. Buona estate a tutti!

 

*docente coordinatore del progetto “Sharing”

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