Forse dovremmo chiedere scusa

di Federico Pichetto

– Forse dovremmo chiedere scusa. Ci penso ormai da diversi giorni e sono giunto a questa conclusione. Le decine di ragazzi che ogni giorno incontro, prima ancora del nostro sapere o delle nostre idee, avrebbero semplicemente bisogno delle nostre scuse. Scuse per avere la presunzione di conoscerli, di sapere già come sono e come dovrebbero essere, senza fermarci mai un attimo – davvero – ad ascoltarli. Forse ci racconterebbero cose ingenue, cose sprezzanti, cose pericolose o terribili, ma – forse – per la prima volta potremmo sentire dentro i loro racconti tutta la paura, e il dolore, di non essere amati, di non valere niente, di sentirsi ricoperti di cose, di attenzioni, di premure, ma non di bene, di gratuità. Eppure loro ci vogliono bene. Ce ne vogliono talmente tanto che ogni nostra parola, ogni nostro respiro, per ciascuno di loro è preziosissima. E allora quando noi diciamo, così per dire, che “così non vai bene”, che “mi hai deluso”, che “mi pento di averti messo al mondo”, forse dovremmo imparare che loro ci credono e, quando non li vediamo, ci piangono. A volte hanno un modo tutto loro di piangere: non usano le lacrime, ma il dolore e quello che sentono – il male che provano – lo fanno a se stessi infrangendo tutte le regole che noi gli abbiamo insegnato, sbeffeggiando quello che gli abbiamo consegnato per sbeffeggiare noi stessi. Forse dovremmo chiedere scusa per tutto questo. Scusa per le nostre incoerenze di chi vuole insegnare qualcosa, ma si presenta come un fallito, un illuso, un poveretto. Perchè loro – i nostri ragazzi – ci guardano, ci vedono, ci scrutano. E non sono scandalizzati del fatto che siamo fragili, che siamo miseri, che facciamo degli errori, ma sono colpiti da come noi ci atteggiamo ad esseri superiori, a persone diverse e migliori di loro. Questo a loro fa arrabbiare tantissimo perché si accorgono di come siamo, di come ci comportiamo, di come ogni volta – con i nostri comportamenti – tradiamo quello che a loro insegniamo. Non sono toccati dal fatto che sbagliamo, ma dal fatto che noi stessi non seguiamo ciò che a loro indichiamo, che noi – dal basso della nostra meschinità – ci permettiamo di dire loro che cosa fare, di spiegare un mondo che – questo lo sanno bene – noi non abbiamo ancora capito. Forse dovremmo chiedere scusa anche di questo. Magari ripensando che fidarsi di loro non significa “concedere” un po’ della nostra indulgenza o del nostro buonismo, ma che vuol dire scommettere sul fatto che da loro, da quello che sono loro, può nascere qualcosa di buono, di vero. L’altro giorno ho detto in una classe che l’unica cosa certa della nostra vita è che dobbiamo morire. Ma ho poi subito aggiunto che una cosa che quindi è ancora più certa è che ciascuno di noi deve vivere. Una vita, una sola vita abbiamo a disposizione. E dobbiamo decidere su chi scommetterla, su che cosa investirla. E dobbiamo smetterla di pensare se gli altri saranno scontenti o contenti di quello che siamo, ma – semplicemente – provare ad esserci, provare a puntare su noi stessi, sul nostro desiderio di essere felici. In classe, dopo queste cose, non si muoveva neppure una mosca e il silenzio che avvolgeva gli infiniti istanti che erano trascorsi dalle mie parole era rotto solo dalle lacrime di chi era lì e si sentiva preso sul serio. Non ho detto loro che avrebbero avuto vita facile, o che gli avrei concesso soldi o tempo libero: ho detto loro che avevano davvero una possibilità, una possibilità di vita. Forse dovremmo chiedere scusa di tutte le volte in cui non siamo stati capaci di dire queste parole, di provare questa piccola, ma infinita, compassione. E adesso vorrei, come cristiano e come prete, dire che anche noi – comunità, Chiesa – forse dovremmo chiedere scusa. Per averli fatto giocare come una qualunque baby sitter. Per avergli raccontato di un Dio da fare contento e non di un Padre che ci vuole contenti. Per aver rinunciato a riconoscere in ognuno di loro non “argilla da formare”, ma “doni di cui ringraziare”. Siamo distanti da loro. E ci raduniamo per provare a cambiarli, a renderli più vicini a noi. Ma facendo così perdiamo il gusto di scoprire, dentro le loro vite, una Vita che ci ha già preceduti e che – nel silenzio della notte – li ha già incontrati. Forse dovremmo chiedere scusa. Prima che la loro rabbia diventi disperazione, prima che il loro senso di abbandono ci travolga tutti, prima di scoprire che quello che loro vogliono da noi è sentirci dire che a volte anche noi abbiamo sbagliato. Che non sono loro ad avere bisogno di noi, ma che siamo tutti ad avere bisogno di tutti. Forse dovremmo chiedere scusa. Oppure stare zitti e, per una buona volta, accettare seriamente di incontrarli. Dopo tutto loro sono quello che ciascuno di noi è stato, quello che ognuno di noi è ancora: un cuore che cerca e che mendica un frammento di Cielo, una seconda possibilità dopo ogni errore, un bisogno di Amore gratuito che non si arrende e che tutto accetta tranne che di essere rifiutato. Forse dovremmo chiedere scusa. Sarebbe un buon inizio, sarebbe il primo vero inizio di quello che gli storici, un po’ pomposamente, chiamano spesso “rivoluzione”. Scusate ragazzi, scusatemi. Io so solo che se ogni mattina vengo da voi é perché, molto banalmente, vi voglio bene. E questa, per me, è la cosa più importante, il motivo per cui vale la pena, con tutto il cuore, di chiedervi scusa. Per quello che non so essere. E soprattutto per quello che, anch’io, non so diventare.

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