MULTINAZIONALI & DEMOCRAZIA/Fra proteste e “giustizia fiscale”

Di recente, la Apple è tornata alla ribalta per uno scandalo che da anni la coinvolge.

Il 19 e il 20 dicembre 2020 migliaia di lavoratori di una fabbrica a Shangai hanno protestato per non essere trasferiti nella succursale di Kunsham.

Entrambe le fabbriche, come molte altre, appartengono all’azienda taiwanese Pegatron, il secondo più grande assemblatore al mondo di iPhone (il primo è Foxconn).

A novembre 2020, alcune indagini condotte da due Ong statunitensi, avevano dimostrato come migliaia di tirocinanti, a Kunsham, fossero sfruttati illegalmente. Tutto questo, per consentire alla Apple di lanciare in tempo il nuovo modello di iPhone.

La notizia non è certo nuova: ogni anno, infatti, Foxconn e Pegatron devono rispondere ad accuse del genere.

Come è stato rivelato nel 2015 dal The Asia-Pacific Journal, ogni anno, verso settembre, queste due multinazionali taiwanesi assumono migliaia di lavoratori temporanei. Per lo più provenienti da istituti professionali che, per propri tornaconti personali, obbligano studenti fra i 16 e i 19 anni a lavorare in catene di montaggio. Inoltre, questi ragazzini non vengono considerati lavoratori dipendenti, e dunque sono esclusi da ogni tutela giuridica.

Licenziarsi, per loro, significa perdere lo stipendio e non ottenere il certificato di diploma, rilasciato da quegli stessi istituti che li obbligano a lavorare in queste condizioni.

Radio Free Asia ha riportato che, coloro che a dicembre 2020 si sono opposti al trasferimento a Kunsham, sono stati licenziati.

Storia della “lotta” europea alle multinazionali:

Il problema della multinazionali, però, non coinvolge solo Asia.

In Europa, la lotta a questi grandi colossi, nel tentativo di far pagare loro il dovuto, è stata avviata solo pochi anni fa.

La prima data significativa è il 2015, anno in cui l’Ocse ed il G20 hanno riconosciuto che le multinazionali, con il cosiddetto “progetto Beps”, riescono a sottrarre all’UE, ogni anno, tra i 100 ed i 240 miliardi di dollari.

Così, nel 2016, l’UE ha approvato una rendicontazione obbligatoria (che consiste nel dire quanto si guadagna ed in quale modo). Con questo provvedimento sperava di porre fine al problema. Tuttavia, come ha fatto notare l’Ong Oxfam, questa proposta era troppo debole: infatti, imponendo questa rendicontazione solo alle aziende con fatturati annui superiori ai 750 milioni di euro, circa il 90% delle multinazionali è stato tagliato fuori.

Dopo anni in cui questa “battaglia fiscale” – come è stata definita – sembrava non interessare più a nessuno, nel 2019 il problema si è riposto, ed in modo molto negativo. Di fronte alla richiesta europea di rendere pubbliche tutte le informazioni riguardanti le multinazionali, 12 Paesi europei (Austria, Croazia, Cipro, Estonia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia ed Ungheria) si sono espressi contrari. La Germania si è astenuta, il Regno Unito non ha votato.

“È un giorno amaro per la giustizia fiscale” ha commentato la portavoce al Parlamento Europeo di Alleanza 90/I verdi. “Una minoranza ostruzionista ha impedito la giustizia fiscale”.

Le strade possibili per una “giustizia fiscale”:

Visto che un accordo tra vari paesi europei resta un obbiettivo lontano da raggiungere, la Conferenza Delle Nazioni Unite Sul Commercio E Lo Sviluppo ha individuato tre differenti strade, per evitare che ogni anno vengano sottratti all’UE 240 miliardi:

a) le Nazioni Unite potrebbero obbligare le multinazionali a rendere pubblici i propri dati, magari sviluppando una legge obbligatoria comune a tutti;

b) ogni singolo Paese potrebbe agire per conto proprio, ed imporre ad ogni multinazionale le proprie condizioni (come aveva cercato di fare, prima di essere bloccato per un formalismo, il Parlamento francese, obbligando questi colossi a rendere pubblici i propri dati);

c) le varie multinazionali, spinte da organizzazioni come il Global Reporting Initiative, potrebbero pubblicare di propria volontà i dati richiesti. È quello che sta succedendo, per esempio, ad Eni e a Vodafone.

La protesta italiana del 6 gennaio 2021:

Stando ad uno studio dell’Ocse, nel 2015 l’Italia ha perso, a causa dei trasferimenti all’estero dei profitti delle multinazionali, 6.4 miliardi di euro.

Oltre a sottrarre soldi ai singoli Stati, però, le multinazionali distruggono anche le piccole partite Iva, già gravate dalla spietata concorrenza digitale dei grandi marchi.

È questa la ragione per cui il 6 gennaio 2021, Tutela Nazionale Imprese, che rappresenta circa 40mila aziende italiane, ha dato avvio ad una protesta contro i colossi del “delivery” e del “fast-food”.

Chiediamo a tutte le persone di aiutarci a tenere in vita i nostri locali” ha chiesto il portavoce della sezione toscana.

Non si tratta di una battaglia contro i fattorini”, hanno chiarito. “Anzi, questa è una lotta anche per loro, visto che in molti casi lavorano in condizioni di sfruttamento. Quando le nostre attività ricominceranno a funzionare, saremo in grado di integrare queste persone”.

Hanno spiegato, infatti, che i locali che si affidano ai grandi colossi del “delivery” e del “fast-food” pagano una commissione dal 25% al 35%, a cui vanno aggiunti le frequenti penali per l’attesa e, soprattutto, l’Iva. Così, “da una fattura media di 2.400 euro ricaviamo 970 euro, che non bastano a ricoprire i costi”.

Dal 6 gennaio” ha concluso il portavoce di Tutela Nazionale Imprese/sezione toscana, “chiediamo agli italiani di sostenerci facendo i propri ordini direttamente presso i nostri punti vendita o servendosi dell’asporto, e non tramite le piattaforme delle multinazionali che hanno sede all’estero e non pagano nemmeno le tasse in Italia”.