SOCIETÀ/Non Chiamiamolo “Revenge Porn”

Giulia, una ragazza di Roma come tante, aveva 13 anni quando ha scoperto che la sua fiducia era stata tradita, a causa della divulgazione di un suo video e di varie foto intime che la ritraevano a nudo nei vari significati della parola. Il caso è a noi noto grazie ad un altra recente indagine su una baby gang che avrebbe picchiato un ragazzo disabile. Le foto sono state divulgate dall’ex-fidanzato e da un amico del ragazzo nel 2019, ma ad oggi Giulia non smette di risentire le conseguenze dell’accaduto. Le sue foto ancora circolano sui social, postate da profili anonimi con iscrizioni degradanti e commenti ancora più vigliacchi. Le umiliazioni subite non si limitano ai social :

«Sono passati più di tre anni e ancora mi insultano tutti. Mi scrivono “Vai sulla Salaria” e roba del genere. L’inverno scorso tre ragazze di Roma sud mi hanno picchiata all’Eur perché hanno visto le mie foto sui cellulari dei loro fidanzati».

Coloro che lavorano con le vittime di revenge porn dicono che l’impatto psicologico può essere devastante. Come racconta ad esempio Jovana Gajovic, psicologa e psicoterapeuta nella capitale bosniaca, Sarajevo..

«In pratica, l’intero insieme di credenze che abbiamo su noi stessi crolla»- ha detto in un intervista che affrontava l’omonimo argomento – «Le conseguenze possono essere più gravi di quelle della violenza fisica. Nel revenge porn abbiamo una continuità che è condizionata dal fatto che le registrazioni minacciano permanentemente le vittime, che metteranno in pericolo la loro reputazione, integrità, e che avranno un effetto sulle loro future relazioni sul lavoro, con il loro partner, la famiglia».

Purtroppo casi come quello di Giulia non sono sporadici ma in aumento. L’indagine resa nota dalla Polizia Postale segnala un incremento dei casi di revenge porn nel 2021 rispetto al 2020 pari al 78%. Anche i fenomeni di sextortion (ovvero i reati in cui l’estorsore minaccia la vittima di pubblicare foto e video privati qualora non rispondesse alla richiesta di ricatto) hanno visto un aumento pari a +54% rispetto all’anno precedente. Un’altra indagine condotta dal TF Group srl mette tutti noi di fronte a dati allarmanti; infatti da quanto viene appurato dalla ricerca circa due milioni di italiani sono stati vittime di Revenge porn, mentre 14 milioni di persone hanno guardato in rete immagini di pornografia non consensuale.

Il termine Revenge porn nasce nel 2016 e viene utilizzato per la prima volta in Italia per il caso di Tiziana Cantone, inizialmente archiviato come suicidio ma poi grazie alla madre e ad alcuni investigatori privati, riaperto. La donna, napoletana di 33 anni,  si tolse la vita dopo che il suo ex-fidanzato aveva diffuso un video che la ritraeva mentre praticava sesso orale. A distanza di sei anni e di una legge in merito si é anche creata la consapevolezza che il termine “revenge porn”, sia inadeguato per descrivere un fenomeno che è molto più che una dinamica di ritorsione tra due persone non trattandosi solo di una cosiddetta “vendetta”; inoltre usare una parola come “vendetta” per descrivere un fenomeno sociale come questo rischia di ricadere del victim blaming. Come dobbiamo considerare, ove non si può parlare di vendetta, ad esempio, casi come quelli dei gruppi Telegram dove vengono diffuse e sessualizzate anche le immagini più innocenti, prese direttamente dai profili Instagram o Facebook di donne e ragazze inconsapevoli? Ciò a cui dobbiamo prestare più attenzione quando si parla di condivisione non consensuale di materiale intimo – questa è l’espressione più consona – è che difficilmente si tratta di questioni che riguardano relazioni interpersonali (quali la fine di una storia tra due partners, o un litigio di coppia), ma che è strettamente connesso anche con l’educazione sessuale assente o quasi del tutto assente nelle scuole e in famiglia, il consenso, i diritti digitali, l’accountability delle grandi piattaforme digitali e persino la nostra stessa democrazia.

Si tratta, come sempre quando si parla di diritti digitali, di un argomento spinoso che deve trovare e per certi aspetti ridefinire un equilibrio tra la tutela delle persone, la loro libertà di espressione e la democrazia. Resta però inutile agire sul fronte legislativo se manca una vera consapevolezza del fenomeno, consapevolezza che, nel nostro Paese e non solo, non è ancora sufficiente e non lo sarà finché casi come quello di Giulia e di Tiziana ci saranno e non saranno affrontati con la giusta premura e coscienza che si meritano.