VIVERE NELLA LEGALITÀ/Day 2 – Stato di abbandono

Articolo di Silvia Sartor, Stefano Pezzi, Cristiano Caselli, Gabriele Animato, Giacomo Zanardi, Alessio Benvenuto e Francesca Soave.

Ci troviamo affianco alla carreggiata dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, nei pressi dello svincolo per la cittadina di Capaci. In un pomeriggio come questo, il giudice Giovanni Falcone muore.

Con lui saltano in aria la moglie e una macchina della scorta e, dove prima le auto scorrevano tranquillamente, una voragine ingoia lamiere e corpi dilaniati. 

Solo tre agenti, che seguivano la macchina del giudice, e il suo autista sopravvivono. 

Quest’ultimo si trova ora insieme a noi. 

Proviamo una sensazione rara nel condividere il silenzio di un luogo dove, trent’anni fa, un boato aveva ferito il cuore dell’Italia.

Ma troviamo ancora più raro avere il coraggio di rompere quel silenzio con la forza di una parola più assordante di qualsiasi rumore.

La parola di Giuseppe Costanza ha un sapore dolceamaro, che mischia la speranza di un futuro migliore al dolore della solitudine di chi è stato abbandonato di fronte a qualcosa più grande di lui.

Della storia di quel giorno, infatti, Giuseppe sottolinea alcuni particolari, indizi che portano alla stessa conclusione: il coinvolgimento delle istituzioni.

Ci racconta innanzitutto di come, una settimana prima, il magistrato Falcone aveva ricevuto la notizia che sarebbe finalmente diventato procuratore nazionale antimafia e di come, solo la mattina di quel 23 Maggio, gli aveva telefonato da Roma per comunicargli l’ora di arrivo a punta Raisi. È strano capire perché Giuseppe costanza, protagonista di quella dolorosa vicenda, non sia stato invitato a presenziare il giorno dell’inaugurazione del memoriale a Capaci, perché a malapena sia stato presente nei processi giudiziari. 

Di lui si parla in termini tragici, “l’ultimo sopravvissuto”, ma che ne è dei tre agenti della terza macchina di scorta Paolo Capuzzo, Angelo Corba e Gaspare Cervello? 

La ferita è ancora aperta e non gli è permesso ricordare senza risentimento: c’è un bisogno di verità che ancora non è stato soddisfatto. Chi sta davvero dietro alla strage di Capaci?

Commosso, si augura e ci augura di essere futuri testimoni del giorno in cui, passati altri trent’anni, forse sapremo davvero i nomi che mancano per completare questa storia. 

La sua testimonianza ci insegna la forza di un uomo che riesce ad alzare la testa di fronte alle intimidazioni di una parte di stato che lo vuole zitto e buono: da troppi anni la sua testimonianza viene oscurata e sono svariati i tentativi di metterlo fuori gioco non fornendo alcun tipo di sostegno psicologico dopo un tale trauma e una simile tragedia. 

Non a caso anche il giudice Falcone in persona venne più volte ostacolato proprio da chi meno si aspettava: alcuni suoi colleghi del palazzo di giustizia. 

Quando oggi abbiamo visitato il bunkerino che accoglie il Museo Falcone e Borsellino, ci è stato rivelato quanto queste figure fossero in realtà odiate all’interno di quelle stesse mura che un tempo rappresentavano un’alternativa. Tra invidie professionali e calunnie, lo slancio dei magistrati verso un approccio innovativo alla lotta contro la mafia era visto come narcisistico e autoreferenziale.

Nessun giudice fino ad allora si era mai sporcato le mani, spulciando migliaia di fatture e ripercorrendo un sentiero di lire insanguinate, nessuno aveva capito quanto l’informazione in prima persona nelle scuole fosse importante e nessuno aveva guardato alla collaborazione internazionale come ad una svolta nelle indagini. Spuntano però i nomi di altri eroi tra le pagine di questa storia, come Rocco Chinnici, padre del pool antimafia.

La forza della mafia sta nel rapporto creato persino tra la parte sporca nei vertici dello Stato, ed è disposta a fare di tutto pur di mantenere l’equilibrio di profitto che si è creato con i corrotti, in un gioco di spartizione territoriale che richiama quei meccanismi tipici proprio di Cosa Nostra.

Nonostante questo, Giuseppe Costanza ha trovato la forza di regalarci un ultimo forte e commosso richiamo all’azione, alla fiducia in un cambiamento, per un futuro vero e libero.

La sua voce si unisce a quelle che abbiamo ascoltato tra le mura degli uffici dei magistrati e nella casa di Paolo Borsellino, e c’è un filo rosso che le collega: la resilienza. 

La sua testimonianza ci trasmette il coraggio di lottare per ciò che crediamo giusto, anche quando le pugnalate arrivano alle spalle, da chi non ti aspetti, da quello Stato che ci dovrebbe tutelare.

Troviamo quindi il coraggio di credere in un obiettivo senza riserve, di continuare a donare la vita pur sentendoci condannati, come dei “morti che camminano”.

Abbiamo trovato, il senso civico, la dedizione, l’amore per la propria terra, nel cuore dell’antimafia.