PRIMO LEVI/Una voce che deve essere ascoltata e mai dimenticata

«Non siamo mai stati molti: eravamo qualche centinaio, su troppe migliaia di deportati, quando, trent’anni fa, abbiamo riportato in Italia, ed esposto allo stupore attonito dei nostri cari (chi ancora li aveva), il numero azzurrino di Aushwitz tatuato sul braccio sinistro. […] Ora siamo ridotti a qualche decina: forse siamo troppo pochi per essere ascoltati, ed inoltre abbiamo spesso l’impressione di essere dei narratori molesti; talvolta, addirittura, si avvera davanti a noi un sogno curiosamente simbolico che frequentava le nostre notti di prigionia: l’interlocutore non ci ascolta, non comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli. Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra sopravvivenza».

Primo Levi, Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986 con Leonardo De Benedetti, Einaudi, Torino 2015.

L’arrivo a Buna Monowitz

Primo Levi, membro di un gruppo partigiano, viene catturato il 13 dicembre 1943 dalla milizia fascista. Ha con lui documenti falsi, ma durante uno degli interrogatori a cui viene sottoposto, in parte per giustificare la sua adesione alla Resistenza e in parte per non rinnegare le sue origini, dichiara di essere ebreo. Viene inviato a Fossoli e da lì caricato su un treno, vagone bestiame, diretto ad Aushwitz. Un posto sul quale girano voci a cui non tutti credono, alcune persone infatti salgono su quei vagoni con la speranza di tornare a casa e portando con sé gli averi più preziosi convinti di poterli conservare nel luogo verso il quale sono diretti. Giunto a destinazione è sottoposto ad una selezione durante la quale gli viene domandato se fosse in grado di lavorare. Levi, sano e di buona costituzione fisica dovuta alla sua precedente vita in montagna che lo ha da sempre temprato al freddo, risponde affermativamente e viene portato a Buna Monovitz un campo di lavoro dove resterà fino al 25 gennaio 1945.  Uomini e donne considerati inadatti al lavoro, vecchi e bambini vengono condotti direttamente alle camere a gas e i loro corpi cremati.

Sopravvivenza

Di tutti i deportati solo un quinto di ogni convoglio viene condotto nel campo di lavoro e, una volta ammessi, gli uomini e le donne devono cercare di sopravvivere alle enormi fatiche a cui sono sottoposti in condizioni che spesso ne causano la morte. Le persone vengono private del loro nome e tatuate con un numero identificativo, vengono loro rasati i capelli e vestiti con indumenti a righe da lavoro e scarpe che non sono mai della misura dei piedi che le indossano e che, fin troppo spesso, sono causa di morte. Sì, perché le scarpe, se sono troppo larghe, creano impedimenti nell’eseguire gli ordini delle guardie che non si fanno scrupoli a massacrare di botte i prigionieri, oppure, se sono troppo strette, causano vesciche, infezioni e infine la morte. Le persone sono private di ogni aspetto che permetta loro di considerarsi ancora uomini, donne, individui con un’identità e con la capacità di intendere e di volere, come esseri umani dotati di ogni forma di diritto. Giunti nel campo, come prima cosa, i deportati devono accettare questa forma di umiliazione e cercare di lottare per non dimenticare la propria identità.

Ogni forma di ribellione significa morte.

In secondo luogo, è necessario resistere alle fatiche del lavoro, al freddo e alle malattie. La malnutrizione impedisce di sopportare tutto questo: i pasti prevedono una media giornaliera di 500 gr. di pane composto per buona quantità da segatura, qualche grammo di salame o un cucchiaio di marmellata, zuppe quasi totalmente prive di valori nutritivi necessari per la sopravvivenza e un litro di un surrogato di caffè. A Monowitz l’acqua non è potabile e quindi si possono ottenere liquidi solo dalla bevanda distribuita e dalla zuppa che riempie i pasti del pranzo e della cena. La nutrizione basata su questo e, spesso, su alimenti che sono marci, causa diarrea, uno dei più frequenti motivi di morte, in quanto deperisce completamente le persone e le rende incapaci di sopravvivere.

Primo Levi, con pochi dei suoi compagni, riesce a resistere a tutto questo, come lui stesso dichiara, per una serie di eventi fortunati: introdotto nel campo conosce alcune parole di tedesco ed ha modo di migliorarlo fin da subito, ciò gli permette di rispettare i comandi che gli vengono imposti e di scampare alle botte delle guardie e alla morte. Non si ammala mai e l’unica volta in cui questo accade, al termine della guerra e poco prima della liberazione, gli salva la vita, in quanto è abbandonato dai tedeschi nell’infermeria del campo con alcuni compagni non in grado di marciare e ormai considerati sul punto di morte. Al contrario, gli uomini sani e sopravvissuti fino a quel momento vengono condotti in una marcia di evacuazione dai campi, durante la quale la maggior parte dei compagni di Levi muore fucilata dalle SS. Altri vantaggi che gli permettono di sopravvivere sono: l’essere un uomo di piccola costituzione che non ha mai avuto bisogno di mangiare tanto, la capacità di sopportare le temperature fredde ed essere un chimico. Grazie a quest’ultimo fattore e alla conoscenza del tedesco riesce a passare un test per lavorare in una fabbrica di gomma sintetica interna al campo.Per questi motivi e per una capacità che gli permette di adattarsi a diverse situazioni, Levi scampa la morte causata dal freddo e dalla fame.

Il ritorno e il bisogno di raccontare

Quando Levi torna a casa si trova costretto a combattere con un nuovo nemico: i sensi di colpa. Lui è infatti solo uno dei 20 sopravvissuti sui 650 ebrei italiani che erano arrivati a Monowitz il 13 dicembre 1943.

Levi, però, si rende conto che in quanto sopravvissuto ha un compito: quello di ricordare, raccontare, testimoniare e dare voce a chi non la ha più. Tutto questo diventa una missione che sente di dover compiere dal punto di vista morale e il senso del dovere è così forte da permettergli di trovare la forza per scavalcare il dolore provato nel ricordare e raccontare le umiliazioni e le sofferenze subite da lui e dai suoi compagni, che lo hanno segnato indelebilmente. Dopo tutto quello che ha patito lui, così come tutti coloro che sono sopravvissuti e hanno trovato la forza e il coraggio di testimoniare, è riuscito a reimpossessarsi della propria identità e volontà in quanto essere umano e a scrivere gli orrori che si sono verificati nei campi di concentramento con una chiarezza e una lucidità incredibili.

Il nostro compito: ascoltare e non dimenticare

Ci potremmo mai rendere conto della forza di volontà delle persone che hanno avuto la capacità di fare questo? Ci renderemo mai conto del valore umano di queste testimonianze?

Primo Levi ci ha lasciato un bene prezioso, la sua parola, e nel farlo ha rivestito le generazioni future di un compito dal quale nessuno si può esimere: ascoltare.

È necessario ascoltare ciò che lui e tutti i sopravvissuti hanno raccontato, ma è necessario farlo con le orecchie, il cuore e la testa perché le parole di Primo Levi devono essere comprese pienamente, accolte, accettate e memorizzate. Se ognuno di noi rispetta questo dovere e si impegna a farlo rispettare anche alle generazioni future, permette alle voci dei sopravvissuti, e di tutti i deportati che loro rappresentano, di non morire mai e di essere rese eterne. Il nostro compito, quindi, è quello di non dimenticare queste voci e di conferire il degno valore alla loro testimonianza.