All’origine e aldilà del mito: dialogo con il professor Bottillo


di Raffaele Raminelli e Filippo Bottillo

Cari amici di Sharing, oggi è qui con noi il professore Filippo Bottillo, docente di religione presso la succursale di Recco. Insieme a lui approfondiremo un tema universalmente presente nella storia dell’umanità: “L’uomo e il mito”. Le origini del mito risalgono parallelamente a quelle della scrittura, la cui invenzione ha segnato un cambiamento epocale, lo spartiacque tra la preistoria e la storia. Questa innovazione è stata una sorgente di informazioni e cultura senza precedenti, una tecnica ancora oggi efficace per la comunicazione umana e alla base della società contemporanea. Uno strumento particolarmente efficace, all’interno della scrittura, in grado di far emergere in modo definito e completo l’interiorità del soggetto, la sua inquietudine, la sua psiche, è stato sicuramente il mito.
Professor Bottillo: che cos’è un mito?
Raminelli, mi fai una domanda enorme. Partirei da una definizione, tanto per definire il campo in cui muoverci. L’uomo, infatti, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, non possono mai essere identificati esaustivamente all’interno di uno schema: ce lo insegna l’esperienza. Comunque sia, esistono diverse definizioni di mito. Esso può essere inteso come un complesso di narrazioni aventi come oggetto dèi ed eroi leggendari; oppure come una rappresentazione allegorica, filosofica o politica volta a rappresentare un’idea; ancora, come l’idealizzazione di un evento, di un personaggio o di una situazione.
Ogni era e cultura ha dei miti di riferimento: qual è l’origine?

Ognuno di noi ha bisogno di miti: che siano inventati o reali, all’interno di una dinamica relazionale volta alla crescita dell’essere umano, il mito rappresenta sempre un confronto verso il quale tendere. L’uomo ha un’urgenza dentro di sé. Il mito corrisponde ad una risposta al bisogno esistenziale che ci contraddistingue.


Secondo lei, quali sono i miti di oggi?
Per accorgerci dei miti che caratterizzano la nostra società basta guardare la televisione, il mezzo di comunicazione di massa attraverso il quale ci vengono trasmesse idee e contenuti con cui confrontarci. I miti variano anche in base alle persone prese in esame, alla cultura di appartenenza, al background e alla storia familiare che le caratterizza. A livello più generale, la nostra società è impostata su uno stampo capitalista improntato al libero mercato; questo determina una serie di miti molto diffusi di tipo economico, quali l’accumulo, la ricerca della ricchezza, il successo e il potere. Ma questo, come già accennavamo prima, non è altro che la conseguenza di un bisogno più profondo: la ricerca di felicità. All’interno di ogni persona abbiamo un desiderio, che è quello di essere felici, stare bene, essere sereni. Questo slancio – estremamente positivo – se interpretato male, può corrispondere ad una prevaricazione, ad un tentativo di accumulo di potere e fama per evitare di essere in pericolo. C’è un bisogno di sicurezza esistenziale alla base di tutto. Noi tentiamo sempre di riempire un vuoto che sentiamo al nostro interno.
Dunque il bisogno che ci spinge a creare miti nasce da una mancanza che ci spinge verso la definizione di un ideale. Secondo lei, esiste un ideale in grado di colmare fino in fondo il cuore dell’uomo? O siamo destinati a creare miti all’infinito?
Un buon elemento di confronto è il rapporto col trascendente. L’esperienza ci insegna che quando ci confrontiamo col metafisico abbiamo una modificazione del nostro comportamento, positiva o negativa a seconda di come uno si relaziona. Cercare un mito che valga per tutti potrebbe essere il riconoscimento di Dio, declinato in forme diverse secondo le varie religioni. Dire che Dio è un mito è comunque sbagliato, perché Dio non è un mito, bensì una relazione: il trascendente è parte dell’essere umano che lo definisce in quanto tale. Se eliminassimo il trascendente dall’essere umano cancelleremmo una parte di noi stessi. Cercare un mito che soddisfi la propria domanda vuol dire che non si è ancora preso coscienza di ciò che si è e si ha ancora bisogno di un confronto esterno che indichi al soggetto il proprio valore. Ma se io parto dalla prospettiva che esiste una relazione – dal punto di vista cristiano, trinitaria – che produce un effetto sull’essere umano, noi non abbiamo più un mito ma un’esperienza, che estingue a questo punto il bisogno di cercare miti. Il mito è anche segno di impedimento, ricerca di conferma di qualcosa che non si ha. Quando si incontra Dio la ricerca diventa relazione. Questo determina uno scatto di crescita e maturità significativo.

Non dobbiamo condannare i miti: servono per crescere, ma prima o poi vanno abbandonati. Essi sono dei punti di riferimento, come i genitori: il bambino ad un certo punto deve demolirli per affermare la propria identità. Questo vale per tutti i miti: essi sono tappe necessarie lungo la ricerca di se stessi.
Quindi non c’è mai l’identificazione totale con un mito…
Non ci dovrebbe mai essere. Nel momento in cui questa avviene, siamo alla presenza di una mancanza di maturazione. L’assolutizzazione di un mito è sempre un abbaglio, e ha delle ripercussioni forti nella vita delle persone. Questo può accadere nei confronti di un personaggio o di un’idea, come è successo nel 1900. Anche l’ideologia cristiana può essere vissuta così. L’assolutizzazione di un mito è sempre dannosa perché inverte il processo di crescita nella società, causandone una regressione. Quando la norma diventa assoluta e non tiene più conto della variante, che è la persona, allora diventa violenta e distruttiva. Un’ideologia sana, invece, considera la persona ed è disposta ad una modificazione in corso d’opera. Riassumendo: i miti sono necessari per un processo di crescita del soggetto, ma nel momento stesso in cui diventano assoluti, si rivelano devastanti.
La crescita definitiva, dunque, è l’abbandono dei miti a favore della riscoperta di sé…
Si, ma all’interno di una relazione col trascendente. La relazione con l’assoluto – dal punto di vista cristiano: Dio – è ciò che ci permette di avere dei punti di riferimento, ma nello stesso tempo di non assolutizzare se stessi. L’autoreferenzialità porta sempre ad un’autodistruzione perché noi non bastiamo a noi stessi.
Prof, grazie mille per essere stato con noi.
Grazie a voi.

All’origine e aldilà del mito: dialogo con il professor Bottillo

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