Editoriale / Novembre

di Federico Pichetto

Il vuoto che lasciano nel cuore certe esperienze della vita è spesso drammatico e indescrivibile. La morte di un genitore, la fine di una storia d’amore, la rottura di un’amicizia, il lento logorarsi di persone a noi care, strette da malattie o da problemi molto più grandi della stessa possibilità che abbiamo di comprenderli, ci costringono a sentire dolori e ferite difficili da “digerire”. L’unica strada sembra la fuga, quel chiudere la porta della nostra stanza, della nostra casa, del nostro stesso cuore. E immergersi in un altro mondo, un mondo fatto di consolazioni a buon mercato, di disperate ricerche di affetto, di “avventure” che in qualche modo possano placare quello che abbiamo dentro e che non possiamo – non vogliamo – fare uscire. Il punto è che tutto questo a volte diventa qualcosa di molto più terribile: il male che ci succede, il male che sentiamo, ci convince di essere condannati a quel male, di essere condannati ad una lenta – ma inesorabile – fine. È allora che i nostri comportamenti, radicati in questa dolorosissima convinzione, iniziano ad accelerare questo destino già scritto e diventiamo i migliori distruttori di noi stessi. L’alcool, il fumo, la droga, il cibo, il gioco sfrenato o il sesso disperato non sono i nomi dei nostri problemi, ma dei nostri gesti drammatici che – nel buio – implorano una luce che non osano nemmeno più sperare. Non è stata una settimana facile questa, non è un mese facile per nessuno novembre. Le giornate si accorciano fino quasi a sparire, la pioggia imprigiona la nostra voglia di vivere, la scuola – infine – ci rinchiude nei nostri doveri e nelle nostre ansie da prestazione. Rimangono solo gli amici, lo sport, le serate. Ma troppo spesso, direbbe Leopardi, scopriamo che “tutto è poco e piccino per l’animo” nostro. E allora sembra che non ci resti altro che attendere, che aspettare che tutto passi, che la vita vada avanti. Chiudere gli occhi – insomma – in attesa che il dolore finisca, che ci raggiunga una qualche altra “maledetta” possibilità. Ma non è questo che ci rende felici, non è questo che ci toglie il vuoto dal cuore. La cosa assurda è che pensiamo di essere gli unici a sentire queste cose dentro. E – cosa ancora più assurda – gli adulti che ci circondano spesso pensano che l’unico modo per aiutarci è dirci di tutto, umiliarci, farci sentire piccoli o impotenti, quando invece non comprendono che questo smarrimento del cuore non è solo nostro, ma è anche – principalmente – loro. Pare non esserci via d’uscita. Poi, d’improvviso, s’affaccia un sorriso, una brezza, uno sguardo. Per un istante il cuore si “sgela” e le cose sembrano poter avere un futuro. Poco importa se tutto questo dura un istante, un attimo. Il nostro dolore, così sconvolto dal male, ha visto un bene. E questo è ciò che rimane per sempre, ciò che ci dà la forza di non arrenderci, ma di sperare e di ricominciare. Perchè è questo che si impara dall’esperienza: il fatto che – come direbbe Montale – “un imprevisto sia la nostra sola speranza”. Anche a novembre.

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