IL TRONO DI SPADE/A tenerci uniti è una (buona) storia

Vivere in un mondo senza Trono di Spade non sarà affatto semplice. Ne sanno qualcosa i 27 milioni di americani che lunedì hanno sofferto della “sindrome da fine-serie TV” e sono arrivati in ritardo al lavoro o si sono messi in ferie per elaborare il trauma.

Non sarà semplice neppure per gli abitanti di Westeros, chiamati a ricostruire un mondo devastato dagli intrighi di potere di Cersei, dalla marcia (mica poi così tanto) inarrestabile del Re della Notte, che volentieri ci avrebbe risparmiato un finale forse un po’ insipido, e dall’ambizione di Daenerys i cui troppo buoni propositi sono sfociati in follia. Una speranza: quella di superare le lotte intestine ora che il trono è stato sciolto dal fuoco di un molto arrabbiato Drogon, grazie alla guida del re più giusto (e apatico) che i Sette Regni abbiano conosciuto.

Una storia chiusa…

Chi è appassionato di cinema sa bene che le storie sono essenzialmente di due tipi: lineari e chiuse. Le storie lineari propongono una vicenda autonoma e in sé conclusa. Per citare un grande classico, è il caso de “La vita è bella”, capolavoro di Benigni che racconta l’occupazione nazista dal punto di vista di un ebreo deportato insieme al figlio; il focus è qui totalmente sul protagonista, la cui esperienza è l’oggetto di interesse (tanto che la narrazione si conclude con la sua morte). Una storia chiusa, invece, narra solo un tassello del puzzle che, per essere compreso, deve essere inserito in un quadro più ampio. L’Iliade ad esempio, che proprio come GOT è un poema corale in cui è difficile individuare un vero e proprio protagonista, si limita a raccontare l’episodio dell’ira di Achille che, tutto sommato, non è neppure quello più significativo della guerra di Troia.

… che ci rende tutti partecipi!

Ora, pensateci bene: nessuno si è lamentato quando nell’Odissea si scopre che a condurre gli Achei alla vittoria è stato il Tyrion della situazione, Ulisse, o quando Achille è stato indegnamente ucciso nella mischia da una freccia scagliata da Paride – roba che manco Re Robert infilzato dal cinghiale! Invece, vedendo salire sul trono Bran “lo Spezzato” (ma che razza di epiteto gli hanno dato poi?) i fans sono rimasti un po’ delusi. Chi tra di noi ha seguito per quasi dieci anni le vicende del continente occidentale ha sviluppato una certa affezione ai personaggi, in alcuni dei quali è finito almeno in parte per identificarsi. Così, attorno all’ultima stagione si è creata una vera e propria tifoseria, con una curva nord che avrebbe voluto re Jon, alias Aegon Targaryen, il principe che fu promesso, e una curva sud che invece tifava per la madre dei draghi, nata dalla tempesta, distruttrice di catene bla bla bla… E non dimentichiamoci del team Arya, che in questa stagione ha avuto i suoi – a mio parere – più che meritati momenti di gloria.

Ma come mai tutto questo coinvolgimento? Effettivamente, si è innescata una dinamica molto particolare, che al genere epico, in cui è la trama più che i suoi personaggi a tenerci col fiato sospeso, ha accostato l’elemento della serialità. Puntata dopo puntata, abbiamo seguito gli sviluppi di Jaime e Cersei; alcuni hanno finito per affezionarsi al piccolo Tyrion e a provare empatia per la sua condizione di “rifiutato”, forse perché anche noi qualche volta ci sentiamo un po’ così; altri hanno apprezzato maggiormente il personaggio di Sansa, che da “uccellino” costretto a pagare a caro prezzo la propria ingenuità diventa una donna risoluta e esperta della vita. Nessuno però a questo punto della storia avrebbe pensato a Brandon Stark. E non è tanto una questione di trama: è dalla prima stagione che aspettiamo di vederlo fare qualcosa di importante, tanto l’hanno tirata per le lunghe la storia del corvo con tre occhi. Si tratta piuttosto del fatto che a nessuno importava davvero di questo personaggio privo di psicologia che rendeva impossibile ogni identificazione.

La puntata sei, con l’incoronazione di Brandon Stark e l’esilio di Jon Snow, ci riporta alla nostra realtà e ci ricorda la nostra posizione: siamo stati spettatori di un pezzetto di storia, l’abbiamo vista e vissuta dalla nostra prospettiva. Ma ciò non significa che la storia si limiti a noi.

La storia di un branco…

La storia non è mai un’opera individuale. A determinarne l’esito sono i rapporti tra gli uomini. A determinarne l’esito positivo è la capacità di rapportarsi degli uomini, e il loro tentativo di rimanere uniti nonostante tutto e tutti senza mai chiudersi in sé stessi e nei propri orizzonti. Insomma, non è un’impresa facile. E, a guardare bene, sembra che ad avercela fatta siano gli Stark di Grande Inverno.

Fin dalla puntata uno ci siamo scervellati per capire chi fosse il protagonista e – ci metto la mano sul fuoco – George Martin ci ha fatto credere a tutti che si trattasse i Ned Stark. Come “chi è Ned Stark”? È quello che hanno decapitato senza se e senza ma al nono episodio… il finto padre di Jon Snow, sì proprio lui! Rob Stark, nonostante una stagione incentrata sulla sua guerra, non ha mai goduto di grande considerazione (a parte le milioni di fans che hanno iniziato a seguire il Trono solo per il suo bel petto scolpito). Che Stannis Baratheon fosse Azor Ahai quasi quasi sembrava impossibile perfino alla donna rossa ed ecco che i sospetti erano ricaduti su Mr. felicità Jon Snow e su torna-a-casa Daenerys. La sesta puntata della ottava stagione ci riporta però alla prima scena in assoluto, con gli Stark tutti riuniti, sopravvissuti alla Grande Guerra e all’Ultima Guerra.

È il branco il vero protagonista del Trono di Spade. Jon ha assemblato l’esercito più grande dei sette regni per sconfiggere il Re della Notte e, tra le lacrime, ha saputo mettere da parte sé stesso per il bene dei sette regni e ha ucciso la regina folle; Arya ha ucciso il Re della Notte (credo che basti); Brandon garantirà pace e stabilità a Westeros; Sansa… ehm, vabbè, Sansa è Sansa. In un branco nessuno è un eroe, ma tutti sono indispensabili: “quando cade la neve e soffiano i bianchi venti della tempesta, il lupo solitario muore, ma il branco sopravvive”.

… e di un uomo che non sa nulla

“You know nothing, Jon Snow”: la citazione del Trono che, anche se non sai un fico secco della serie, non puoi non conoscere. Ed effettivamente Jon è l’eroe che, pur non sapendo nulla, cerca sempre di fare la cosa giusta.

L’ultimo dialogo tra Jon e Daenerys è il confronto tra due concezioni dell’esistenza. Entrambi vogliono il bene di Westeros. Se tuttavia Daenerys cerca di costruire un mondo perfetto in cui non sia neppure più necessario essere buoni, Jon abbraccia la possibilità di essersi sbagliato. La sua crescita come personaggio sta nel riconoscere di non sapere effettivamente nulla. Daenerys pensa di essere nel giusto: lei è stata scelta dal destino, è la non bruciata, la madre dei draghi. Ma poi si tradisce: lei è l’unica ad avere voce in capitolo e, in ultima istanza, è proprio in virtù del suo potere che può decidere cosa è bene e cosa no. Alla fine, è diventata come tutti quei despoti che ha sempre voluto distruggere, forse che le vere rivoluzioni siano sempre destinate a fallire in quanto ad un despota sostituiscono un despota, ad un’ideologia un’altra ideologia.

Calde lacrime rugano il volto di Jon quando prova, un’ultima volta, a far ragionare l’amata. Sono le lacrime di chi ha capito cosa è giusto fare, ma si chiede se non ci sia un’altra soluzione, una capace di rendere tutti felici. Il bacio e la pugnalata. Il dovere è la morte dell’amore. È stato giusto così? E se Daenerys avesse avuto ragione? E se istituire una monarchia elettiva portasse a conflitti ancora più aspri? Queste sono le domande che, da fan, mi viene spontaneo farmi. Ma, come dice Tyrion, solo la storia potrà dirlo. E agli abitanti di Westeros, come a noi, la sfida di rimanere “buoni” tra libertà e destino.