Sotto questo cielo – Lettera ai maturandi

di Federico Pichetto

– Carissimi studenti di quinta, non è uno scherzo, le cose vanno proprio in questo modo: si va avanti un giorno dopo l’altro tra interrogazioni, compiti, lacrime, risate, cose buone, cose dolorose e poi, ad un certo punto, ci si saluta. Accade all’improvviso, senza preavviso. In verità tu lo sai, lo aspetti forse da anni, ne sei contento e non ne vedi l’ora, ma quando succede – chissà perché – un po’ ti dispiace. Il dispiacere non è per la scuola in sé, ma è per qualcosa di strano, di misterioso, che tu capti, capisci e che, in fondo al cuore, conosci: quello che sta finendo non è solo una parte della tua vita, ma una parte di te. Varcata quella porta l’ultimo giorno di scuola, non si torna più indietro, non puoi più pretendere che gli altri ti trattino da bambino o ti assolvano da tanti errori, manlevandoti anche da un discreto numero di responsabilità. Le cose cambiano e, quando cambiano, cambiano per sempre. Arrivati così sull’uscio di quest’ultima lezione ci sono tre cose che vorrei dirvi: la prima cosa, tante volte ve l’ho detta, è che mi dispiace per tutto quello che non sono riuscito ad essere per voi, mi dispiace per non avervi potuto urlare con i miei gesti e i miei atteggiamenti che la vita è bella e vale sempre la pena viverla. Siamo stati tutti costretti a recitare un ruolo che la società ci ha assegnato e, dentro questo ruolo (queste infinite maschere che ogni giorno indossiamo) quello che emerge di più non sono le nostre performance, ma i nostri tentativi di “restare umani”, di restare veri, liberi, autentici. Ecco: a me dispiace di non esserci sempre riuscito, di non avervi aiutato fino in fondo a capire che non siamo dei condannati a morte dalle forme del nostro tempo, ma siamo esseri umani, esseri che in ogni istante possono scegliere da che parte stare e che vita vivere. La seconda cosa che vorrei dirvi è che non esiste un istante migliore di un altro. Il futuro non è meglio del passato, né il passato è meglio del futuro. L’unica cosa che esiste è il Presente e a noi il Presente fa paura perché lo sentiamo vuoto, senza alibi, aperto. A volte il sentimento è invece l’opposto: il Presente sembra opprimerci, ricattarci, metterci in fuga o schiacciarci. Ma è il Presente il punto dove si gioca tutto. Voi non potete vivere di ricordi o di sogni, dovete vivere di realtà, accettare di incontrare questa realtà e – come diceva un filosofo antico – avere il coraggio di ripartire da “questa cosa qui” che avete davanti e che, nel bene e nel male, è la vostra vita. Date sempre il benvenuto al vostro Presente. Sia esso il bacio della persona che amate, la lite con un genitore, l’umiliazione di un lavoro o l’applauso di un successo. Chi non saluta il Presente perde tempo. Non nel senso che fa cose inutili – è bello infatti di tanto in tanto fare cose inutili – ma nel senso che perde l’occasione che il tempo gli offre. Il Presente è abitato, popolato da volti, da storie, da presenze che aspettano sempre di incontrarvi e di potervi guardare in faccia. Se saprete andare oltre i pensieri, oltre le fantasie, oltre i comportamenti e le parole, allora troverete la vita, la voglia di vita e – abbracciandola – vi cambierà per sempre. Perché, vedete: è la vita che ci cambia, non siamo noi a cambiarla. Noi possiamo solo rispondere alle infinite proposte e provocazioni che ci arrivano, ma non possiamo decidere mai, tranne in qualche fortunoso caso, che cosa vivere. È il come vivere, il come voi vivrete, che fa la differenza. E allora, infine, permettetemi di dirvi una terza cosa: mi mancherete. Non perché io sia sentimentale o molto affettuoso – può anche essere – , ma perché ogni incontro è unico, ogni incontro è raro e voi siete stati per me qualcosa che nessun altro nella mia vita può essere. Io infatti sono un insegnante perché i vostri occhi mi guardano, perché le vostre orecchie mi ascoltano, perché i vostri cuori mi incontrano. Io non sono un professore perché ho i titoli per esserlo, ma perché voi avete fame, fame di vita, di verità, di speranza. E a questa fame la società ha risposto costruendo la scuola: un luogo dove le esperienze si incontrano, si parlano e si contaminano costruendo “il nuovo” di cui tutti abbiamo bisogno. So che non sempre vi è sembrato che la scuola fosse questo. Ma, pensandoci bene, se oggi ci salutiamo davvero è perché, anche solo per un istante,  fra noi lo è stato. Io non so che ne sarà di voi. Non so se la vostra vita sarà sempre bella o felice, non so se sarete astronauti o cassieri, politici o contestatori, artisti o borghesi. So solo che, in qualunque istante – in qualunque momento – questo cuore che avete incontrato fra questi banchi, e che porta la mia faccia, sarà sempre qui ad attendervi. Magari non in questa scuola, non in questo paese, forse non su questa terra. Ma sicuramente, per sempre, sotto questo cielo. Ed è così quindi che voglio salutarvi, dirvi realmente “ciao”. Non dentro ad una scuola, non da una cattedra e neppure attraverso una forma sociale convenzionale, ma semplicemente sotto questo cielo. E ogni volta che vi sentirete soli, io vi dico: abbattette con la vostra mente i tetti, abbattete i muri, abbattete gli angusti spazi del nostro vivere e pensate che siete, semplicemente, sotto questo cielo. E’ lì che per me abita Dio, è lì che per me Dio si è fatto uomo, è lì che per me Lui ci ha donato la Sua Misericordia. E’ lì, ragazzi, che ho imparato – in mezzo a tanti errori e insuccessi – a volervi bene. Ed è lì che, comunque andrà, ricomincerà sempre la vostra vita. Sì, carissimi, vi voglio bene. E adesso che vi sto per salutare sul serio non posso che dirvi “grazie”. Grazie perché, anche attraverso il vostro sguardo (a volte di sfida, a volte di amicizia, a volte di stanchezza), anche attraverso questi infiniti sguardi io ho imparato di più a guardarmi. E i vostri occhi, lo dico con grande umiltà, mi hanno reso un uomo migliore. Forse perché, anche se voi lo ignorate, quegli occhi in realtà erano gli occhi di Dio. Ci si vede, buona vita. Sotto questo Cielo.

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